In questi giorni destano un certo scalpore le dichiarazioni di Donald Trump, ormai prossimo all'entrata da nuovo Presidente alla Casa Bianca, su un'ipotetica annessione agli Stati Uniti di Canada, Groenlandia e Panama da ottenersi se necessario anche col ricorso alla forza. Tra chi le prende sul serio e chi invece le derubrica a più semplici provocazioni, certamente acquisiscono una sinistra e polemica centralità nel dibattito politico internazionale; anche perché, fatto non certo privo d'importanza, pur sempre provenienti da una figura pubblica di recente eletta alla presidenza di quella che è la principale superpotenza mondiale. Per quanto sempre gravi, certe esternazioni in tali casi possono infatti avere conseguenze diplomatiche ben peggiori che a provenire da figure politicamente d'assai minor rilievo: proprio per tale ragione ogni protagonista delle sorti mondiali sarebbe sempre tenuto a rispettare un inderogabile principio di responsabilità. Nell'Occidente a guida statunitense, di cui facciamo parte, questo fattore non sembra però ricevere una particolare attenzione: non deve sorprendere, considerando la storia coloniale che i principali paesi occidentali, a cominciare da quelli europei fino agli Stati Uniti nati da una loro costola, hanno alle proprie spalle.
In fondo per molto tempo l'annessione diretta di territori altrui, secondo dichiarati scopi di profitto nazionale, solo talvolta mascherati dietro apparenti manifesti di positivista “civilizzazione dell'indigeno”, ha costituito una prassi delle varie potenze occidentali, dall'Africa alle Americhe, dall'Asia all'Oceania. I tempi cambiano, dirà qualcuno, ma pur sempre all'insegna dei famosi “corsi e ricorsi storici” di cui ancora secoli fa parlava Giambattista Vico. Che le sparate di Trump alimentino un certo nazionalismo interno, incline soprattutto nel suo elettorato a sposarsi con un roboante frasario populista e sensazionalista, appare cosa invero poco dubbia; ma ciò non ne fa delle mere sparate destinate a spegnersi in pochi giorni. Nella loro storia gli Stati Uniti, dalle iniziali tredici ex colonie autodeterminatesi con la Rivoluzione del 1776, conobbero una costante espansione che li portò nel tempo a guadagnare, quando con la forza militare, quando con la mera compravendita, gli enormi territori che ne compongono l'estensione odierna. Il prezzo più salato, in quella come in tante altre espansioni territoriali di cui è piena la storia, venne ovviamente pagato soprattutto dalle popolazioni native, in pratica sterminate.
Ad ogni modo, quella di Washington verso il Canada è un'ambizione davvero molto antica, che si può far risalire a molto prima della Guerra Anglo-Americana del 1812-1815, con ragioni che oggi più d'allora si possono ben comprendere: raddoppiando di fatto il loro territorio, gli Stati Uniti acquisirebbero un controllo assoluto di quell'Artico su cui già oggi hanno ben salde le mani, essendo in fin dei conti già oggi e da molto tempo Ottawa sotto la loro sfera d'influenza strategica e militare. Nel momento in cui quella parte di mondo vede per effetti climatici aprirsi nuove rotte e possibilità di passaggio alternative a quelle storicamente già consolidate, ciò si tradurrebbe nella possibilità di chiudere il varco a navi di potenze nemiche, come ad esempio quelle russe e cinesi di cui neppur troppo velatamente gli ambienti trumpiani (e non solo) hanno fatto parola. Inoltre il Canada porterebbe in dote delle immense disponibilità di risorse energetiche e minerarie, senza neppure dimenticare quelle idriche: queste ultime ben più delle altre ad oggi poco sfruttate a fronte del loro vastissimo potenziale, e destinate in futuro ad esser strategicamente ancor più rilevanti di quanto non lo siano già oggi.
In termini demografici, invece, il Canada darebbe agli Stati Uniti 40 milioni di nuovi cittadini, caratterizzati da una minore natalità e da un maggior tasso d'immigrazione, non particolarmente disomogenei dalla già sfaccettata popolazione statunitense. La popolazione totale passerebbe così dagli attuali 334 a 374 milioni, con importanti risvolti pure per la crescita economica e non soltanto demografica del nuovo mega-Stato. Posto in tali termini, per Washington potrebbe rappresentare un “affarone”, tale da garantirle qualche altro decennio di predominio economico oltre che d'autonomia energetica sul piano internazionale, a tacere del disavanzo commerciale legato proprio alle massicce forniture energetiche da Ottawa a quel punto drasticamente ridotto ovvero proprio annullato. Nella corsa alla “sopravvivenza” contro altre grandi potenze oggi sempre più emergenti (od emerse), viste dagli Stati Uniti come vere e proprie “avversarie strategiche”, ciò andrebbe quindi a tradursi in un netto prosieguo del “secolo americano” di qualche altra decade.
Non diversamente si può dire per la Groenlandia, dove però la rischiosità delle ultime affermazioni trumpiane si presenta in modo ancor più visibile. In termini di diritto internazionale, sia il Canada che la Groenlandia costituiscono due nazioni con propri governi, e non certo terre di nessuno su cui più o meno impunemente piantare la propria bandiera. Il primo notoriamente è uno Stato facente parte del Commonwealth britannico, in cui per unione personale il Re d'Inghilterra è capo dello Stato; e così bene o male pure la seconda, Stato a sé seppur legato alla Corona danese e dotato d'autogoverno fin dalla fine degli Anni ‘70, con Copenaghen che ne gestisce formalmente solo gli Esteri e la Difesa. Ma a preoccupare maggiormente il neopresidente americano, più di questi elementi su cui infatti glissa con disinvoltura, anche stavolta è la corsa alle rotte e alle risorse, in cui l'Isola vanta indubbiamente una rilevanza di tutto rispetto; tanto da aver attratto nel tempo le attenzioni e le collaborazioni economiche di molti altri “concorrenti” di Washington, Cina in primo luogo. Che Trump e i suoi indichino in Pechino il “nemico numero uno” è fatto ormai noto; e del resto tale visione non diverge più di tanto da quanto a vario titolo avvertito da gran parte dell'odierno establishment politico e strategico americano, repubblicano o democratico che sia.
Ad ogni modo, anche nei confronti della Groenlandia Washington ha sempre portato avanti un corteggiamento assai serrato, con le prime proposte d'acquisizione dalla Danimarca risalenti ancora all'Ottocento. Nella Seconda Guerra Mondiale, stante l'occupazione tedesca della Danimarca, gli Stati Uniti a loro volta occuparono in modo informale l'Isola con alcuni reparti della loro Guardia Costiera, garantendo così protezione al governo danese in esilio con cui, comprensibilmente, non fu a quel punto neppure tanto difficile accordarsi per il Dopoguerra. Così nei primi Anni ‘50, mentre l’Isola guadagnava una prima ed importante autonomia dalla Madrepatria, gli Stati Uniti firmarono con quest'ultima un accordo in base al quale si sarebbero curati della sicurezza territoriale della Groenlandia qualora Copenaghen non fosse stata in grado di provvedervi, e soprattutto stabilirvi dei propri insediamenti militari. Erano gli anni della Guerra Fredda e nessuno obiettò, né a Copenaghen né a Nuuk (capitale dell'Isola), anche perché la strategicità del territorio appariva già allora chiara a tutti; e a maggior ragione nei decenni successivi, con l'affacciarsi di tecniche missilistiche sempre più avanzate, risultò ancor più fondamentale per rilevare eventuali lanci sovietici sul Nord America. Sorsero così numerosi basi, oltre a svariati centri di rilevazione meteorologica, quasi tutte poi disattivate una volta finita la Guerra Fredda. Il trattato tra Stati Uniti e Danimarca è rimasto comunque in vigore fino ad oggi, ma qualora l'Isola guadagnasse una piena indipendenza, ipotesi auspicata dal governo locale e dai non molti residenti, potrebbe decadere; ciò non sembra tuttavia interessare più di tanto Trump, che infatti parla direttamente di un'annessione. Di certo, assorbendo la Groenlandia, gli Stati Uniti non ne perderebbero il controllo strategico-militare del territorio fino ad oggi tranquillamente detenuto e, considerando il solido affacciarsi in loco proprio dei tanti nuovi “concorrenti”, questa potrebbe esserne una spiegazione. Con Canada e Groenlandia gli Stati Uniti guadagnerebbero un indubbio rilievo nel controllo della regione artica.
Inoltre, insieme al Canada la Groenlandia darebbe agli Stati Uniti un altro enorme vantaggio, in termini di materie prime ed ancor più di terre rare, elementi sempre più imprescindibili nell'odierna corsa tecnologica con nazioni come la Cina. Da tempo Pechino intrattiene con Nuuk rapporti crescenti, che vedono molte sue importanti aziende operare nell'Isola nell'estrazione mineraria e nelle infrastrutture; il tutto gode del favore del governo locale, sempre intenzionato ad attrarre nuovi investimenti esteri nell'Isola. Nel corso degli anni i buoni uffici tra Groenlandia e Cina non hanno fatto altro che crescere, incontrando ovviamente lo sguardo preoccupato di Washington che ad un certo punto ha iniziato ad esercitare sempre maggiori pressioni su Copenaghen affinché a sua volta contenesse le “ambizioni” di Nuuk. Già la prima visita d'affari del premier groenlandese a Pechino nel 2005 non venne commentata da Washington nel modo migliore, e negli anni successivi i malumori americani sono costantemente aumentati. Spesso suscitando l'ostilità della popolazione locale, che infatti per reazione ha votato sempre più per la formazione indipendentista, la Danimarca ha così bloccato alcuni accordi tra l'Isola e Pechino giudicati da Washington come potenzialmente rischiosi per la sicurezza americana: dalla gestione navale a quella aeroportuale, oltre a vari appalti per lo sfruttamento delle risorse minerarie o lo sviluppo della logistica.
Non sono mancati, in molti casi, anche dei danni economici macroscopici per il governo dell'Isola, come quelli relativi all'estrazione dell'uranio o dello zinco da parte di gruppi cinesi, fatti saltare dando luogo pure a forti strascichi giuridici circa le effettive competenze che Copenaghen può vantare negli affari interni di Nuuk. Con tutto ciò, il ruolo cinese in Groenlandia seguita ad essere sempre più importante, ed intuibilmente ancor più fastidioso agli occhi degli Stati Uniti: uranio, torio, terre rare, ma anche gas e petrolio sono solo alcuni dei tanti preziosi elementi su cui Washington vorrebbe mettere il cappello, prima che con modalità più pacifiche sia Pechino a farlo, trattando coi governanti locali condizioni di mutuo vantaggio. Del resto, aggiudicandosi tutte quelle immense risorse, su cui siede un'esigua popolazione di poco più di 57mila abitanti, gli Stati Uniti si ritroverebbero tra le mani ricchezze tali da garantir loro una forte predominanza anche per i decenni a venire: quanto già considerato per il Canada potrebbe dunque in questo caso virtualmente valere ancor di più.
Non diversamente si può dire anche per il Canale di Panama, realizzato proprio dagli Stati Uniti tra il 1907 e il 1914 nella giovane repubblica di cui avevano da poco battezzato l'indipendenza dalla Colombia, dopo che quest'ultima aveva manifestato la propria contrarietà al progetto. Restituito a Panama nel 1999 in base ad un accordo del 1977 tra Washington e Panamà, nel corso del tempo ha visto crescere esponenzialmente i passaggi di navi di paesi e compagnie non sempre molto graditi alla vetusta visione che a Washington ancora si nutre dell'America Latina come di un proprio “cortile di casa”. Già in precedenza Trump aveva criticato i costi a suo dire “esorbitanti” per il passaggio delle navi statunitensi richiesti da Panama e dalla compagnia che ne gestisce il Canale, la Panama Maritime Authority. Quest'ultima è a sua volta ben legata alla divisione portuale della CK Hutchinson di Hong Kong, Hutchinson Ports Holdings, che nel 2021 ha sottoscritto per 25 anni la gestione di due grandi porti panamensi come Balboa e Cristobal assurgendo al ruolo di massimo operatore portuale nel paese. Nel corso degli anni, CK Hutchinson è passata dalla gestione del solo porto di Hong Kong, già di per sé d'estremo rilievo a livello internazionale, a quella d'altri 53 porti ancora in tutto il mondo, situati in 24 paesi diversi.
La Belt and Road Initiative, con Panama che si presenta come primo paese latinoamericano ad avervi aderito, vedendo il proprio interscambio commerciale con la Cina passare dai 14 miliardi del 2000 ai 500 del 2022, entra prepotentemente di scena in tutta questa vicenda, e non sorprende l'obiettivo di Washington di boicottarla in ogni modo. Tanto che, mentre nelle sue dichiarazioni sul Canada e sulla Groenlandia Trump aveva fatto riferimenti ben più vaghi, nel caso del Canale non ha invece avuto particolari problemi a nominare espressamente la Cina: “Noi l'abbiamo dato a Panama, ma ora è dei cinesi”. Oltre alla gestione del Canale, attraverso cui transita il 2,5% del commercio marittimo globale, acquisirebbero poi peso anche altri settori sempre riconducibili a CK Hutchinson, dalle infrastrutture alle telecomunicazioni (in Italia per esempio controlla Wind3) fino ancora all'energia. L'ossessione americana che gruppi cinesi possano controllare rotte e passaggi cruciali, oltre ad acquisire un primato in altri settori oggi strategicamente vitali come le materie prime, l'energia o l'hi-tech, è cosa ampiamente nota e al cospetto del Canale di Panama raggiunge dei livelli di vero e proprio parossismo.
Il raddoppio del Canale di Panama ha d'altronde portato dal 2016 al rallentamento, fin poi all'arresto, di un altro progetto altrettanto ambizioso come quello di un canale parallelo e concorrente in Nicaragua. Già vecchio sogno ottocentesco di Stati Uniti e Nicaragua, varie osticità ne impedirono di volta in volta la realizzazione, portando così Washington a dirigere sin da allora le proprie attenzioni su Panama; ma in ogni caso l'interesse è rimasto, tant'è che nel corso degli anni, su impulso di Managua, compagnie di varia nazionalità si sono affacciate sulla regione valutandone la fattibilità. Dopo statunitensi, canadesi, russi ed emiratini, sono stati infine proprio i cinesi di HKNCD (Hong Kong Nicaragua Canal Development Investment Company) a guadagnarsi anche in questo caso l'ultima parola, giungendo molto vicini all'inizio dei lavori. Il loro avvio avrebbe dovuto avvenire nel 2014 per concludersi poi nel 2019, ma anche stavolta non sono mancate le interferenze di Washington che hanno infine portato allo scioglimento del progetto nel 2018. Nulla vieta però che oggi, con le nuove inquietudini alimentate intorno al futuro di Panama, l'argomento ritrovi una certa attualità: il tempo lo dirà.
Per il resto, parlando sempre di pericolose “sparate” dietro cui potrebbero però celarsi ben più serie intenzioni, andrebbe ricordato che la prima ancora, espressa da Trump già nello scorso dicembre, è stata quella di un possibile riconoscimento dell'indipendenza del Somaliland dalla Repubblica Federale Somala, di cui per diritto internazionale è ancora parte nonostante la secessione di fatto dichiarata sin dal 1991. Come già descritto in un recente articolo, le ambizioni che circondano un Somaliland indipendente sono molte e vedono il coinvolgimento a vario titolo di diversi attori come Israele, gli Emirati Arabi Uniti, l'Etiopia o Taiwan, tra cooperazioni economiche e tecniche e promesse di un riconoscimento dell'indipendenza in cambio di basi navali e militari sulle sue coste. Davanti al Golfo di Aden, accanto allo Stretto di Bab el-Mandeb porta del Mar Rosso, e ad un tiro di schioppo dalla Penisola Arabica, il peso che attraverso il Somaliland vari e nuovi protagonisti potrebbero a quel punto vantare sulle rotte dall'Asia al Mediterraneo passando per Suez risulta facilmente intuibile. Anche in questo caso la partita con la Cina, agli occhi degli Stati Uniti, spicca come prioritaria, insieme a quella di un controllo ancor più stretto di un'area notoriamente strategica pure in termini energetici. Nell'agenda politica di Washington aggiornata all'era Trump, riscrivere trattati e confini appare oggi più che mai pietra angolare per l'attualizzazione del mai dimenticato progetto di "un nuovo secolo americano".