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Dall'Asia Centrale al Medio Oriente per il caos e il fondamentalismo servono risposte a più livelli

2025-01-05 19:00

Filippo Bovo

Dall'Asia Centrale al Medio Oriente per il caos e il fondamentalismo servono risposte a più livelli

Nell'agosto del 2021 Kabul cadde rapidamente in mano ai Talebani, dopo che nelle precedenti settimane questi avevano già messo a segno la conquista di

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Nell'agosto del 2021 Kabul cadde rapidamente in mano ai Talebani, dopo che nelle precedenti settimane questi avevano già messo a segno la conquista di gran parte del paese: a favorirli in quella rapida avanzata erano stati il favore delle varie tribù locali, pacificamente passate dalla loro parte, e il parallelo scioglimento del pur immenso e costoso esercito nazionale afghano, coi suoi militari sempre per le medesime ragioni etno-tribali confluiti nelle loro fila. Quando i primi combattenti Talebani apparvero sulle alture attorno alla capitale, le forze NATO/ISAF asserragliate nell'aeroporto ed ancora intente a completare l'evacuazione furono colte di sorpresa, e così pure i vari governi occidentali: prima tra tutte l'Amministrazione Biden, che si trovò così a pagare anche le conseguenze di un ritiro frettoloso e disordinato, gravato oltretutto da accese polemiche di materia umanitaria. Soltanto pochi giorni prima, l'Amministrazione Biden aveva pronosticato per il governo nazionale afghano una durata d'almeno altri tre mesi, più che sufficienti a completare nel frattempo il rimpatrio delle truppe scaricando poi su Kabul tutti i già prevedibili fallimenti politici e militari successivi; bruciando i tempi, i Talebani avevano davvero messo Washington e la NATO nei pasticci. In ogni caso, almeno per i più critici un'occupazione durata vent'anni e conclusasi senza grandi vantaggi per chi l'aveva intrapresa (eccezion fatta per il suo apparato militar-industriale che aveva potuto approfittarne per armare il potente esercito nazionale afghano a suon di miliardi di dollari, insieme alle tante altre grandi imprese occidentali arricchitesi con una ricostruzione dalle molte infrastrutture lasciate in sospeso), avrebbe lasciato sempre con infiniti dubbi anche se poco dopo la sua ordinata conclusione le forze che aveva combattuto fossero tranquillamente ritornate in sella: anche tre mesi, insomma, sarebbero stati sempre pochi, nonostante il silenzio mediatico che a quel punto sarebbe intuibilmente intervenuto così da evitare che potesse suscitare troppi clamori.

 

Questa vicenda ci ricorda una grande lezione, sempre valida e purtroppo non sufficientemente appresa in Occidente: la risposta militare non può mai essere l'unica soluzione al fondamentalismo, che trae linfa dal caos e dall'impoverimento sociali, e men che meno al terrorismo che da esso prende le mosse facendosene braccio armato. Per debellarli è necessario colpire le ragioni della loro insorgenza, ricorrendo ad azioni di varia natura, di lungo e non soltanto breve e medio periodo. Occorre certamente una risposta securitaria, atta a garantire nell'immediato il mantenimento dell'ordine pubblico e la sicurezza sul territorio, ma al contempo servono anche misure economiche e sociali che migliorino il benessere collettivo e una battaglia culturale che smonti le argomentazioni e le finalità politiche del fondamentalismo e del terrorismo che si fa strumento della sua realizzazione. Questi ultimi interventi possono richiedere anni, coprendo più generazioni per dare dei risultati dal conseguimento progressivo, e passano naturalmente anche per un processo riabilitativo delle comunità e dei singoli che si sono macchiati d'atti terroristi, ricorrendo in tal caso a programmi di rieducazione detentiva e reinserimento sociale. Per raggiungere obiettivi tanto ingenti ed ambiziosi servono dunque tempo e denaro, e non si può certo dire che in vent'anni di miliardaria occupazione del territorio afghano gli occidentali non ne abbiano avuti; ma, come ci viene insegnato dall'amara lezione del 2021, per due decenni immensi capitali sono stati spesi invano se non per arricchire le tasche di pochi. Oggi che in Afghanistan è di nuovo stabilmente insediato l'Emirato talebano, ancor più d'allora si comprende quanto pernicioso sia stato non aver mai creduto nelle possibilità di una piena cooperazione, in grado d'abbracciare tutte le componenti del paese così da renderle collettivamente protagoniste e partecipi di una ricostruzione nazionale nell'interesse di tutti: se davvero gli occidentali l'avessero fatto, le istituzioni che faticosamente avevano sorretto per vent'anni sarebbero probabilmente ancora in piedi, e potrebbero intrattenervi tranquilli e cordiali rapporti esattamente come nel frattempo facevano anche tutti gli altri. 

 

Tuttavia, se gli occidentali hanno chiuso i loro rapporti con l'Afghanistan all'indomani del ritorno dei Talebani al potere, non così hanno fatto gli altri che del resto tranquillamente dialogavano anche coi loro predecessori. Mentre i paesi NATO s'arroccano intorno al governo afghano in esilio, presente unicamente all'ONU con un rappresentante disconosciuto dai Talebani, con questi ultimi altri paesi al mondo seguitano ad intrattenere i propri rapporti contribuendo giorno per giorno a dare al paese maggiori possibilità di normalizzazione e di riscossa. E' quel che gli occidentali non hanno fatto e tuttora non fanno, e che altri paesi invece oggi a vario titolo portano avanti: chi con crescenti investimenti volti a realizzare nel paese le infrastrutture necessarie alla sua modernizzazione e al suo sviluppo, oltre a formarvi i quadri tecnici e professionali, come ad esempio fa la Cina; chi commerciandovi attraverso i porti dell'Iran, come l'India che del resto non nasconde la propria aspirazione a poter guadagnare nell'Emirato la medesima importanza rivestita da Pechino. Del pari, anche la Russia, il Pakistan e l'Iran a loro volta aspirano a raggiungere in Afghanistan i medesimi obiettivi, riuniti nel comune quadro della SCO (Shanghai Cooperation Organisation) che fa di questa grande entità intergovernativa un elemento sempre più decisivo per la stabilità e la sicurezza dell'intera Asia Centrale e del più vasto blocco eurasiatico nel suo insieme. In futuro anche altri paesi in parte già affacciatisi su Kabul e con rapporti sempre più fruttuosi con le altre nazioni della SCO, come la Turchia e l'Arabia Saudita, s'uniranno sempre più in una cooperazione che è l'unica via al raggiungimento di una progressiva stabilizzazione del paese. Solo così, riconoscendo e rispettando le locali parti politiche, ed integrandole in un costruttivo percorso di dialogo, è possibile intervenire sul paese riconducendolo alla normalità. 

 

Gli ultimi avvenimenti in Siria ci mettono davanti ad una situazione piuttosto simile, benché caratterizzata anche da notevoli differenze: se è vero che a livello internazionale, all'unanimità, tanto i Talebani quanto i nuovi governanti siriani erano comunque considerati dei terroristi e dei fondamentalisti, e che entrambi hanno potuto guadagnarsi la conquista del paese grazie anche a complesse e tuttora non sempre chiare trattative diplomatiche (entrambe in Qatar, seppur con partner diversi per entrambi, o quasi) che hanno portato al cedimento anzitempo di due regimi evidentemente non in grado di sorreggersi da soli, è al contempo pur vero che le reazioni soprattutto occidentali sono state assai diverse. Washington e le varie capitali europee hanno accolto con favore l'ingresso di Hay'at Tahrir al-Sham a Damasco, impegnandosi nella sua rimozione dall'elenco delle organizzazioni terroriste e subito affrettandosi a stabilirvi dei rapporti volti ad integrarle nel loro campo politico, anche con visite diplomatiche in loco; del resto, le forze americane tuttora risiedono in Siria, in particolare nelle aree a nord est dove maggiore è l'influenza delle forze curde delle Syrian Democratic Forces (SDF), che insieme ad Israele appoggiano così come più sottobanco appoggiano anche la stessa HTS e le altre sigle takfiro/wahabite collegate all'ISIS e ad al-Qaeda. L'impressione è che i paesi occidentali siano ben lontani dal desiderare per la Siria il rispetto o il ripristino dell'unità territoriale, come invece sostenuto dai paesi del Processo di Astana (Russia, Iran e Turchia in primo luogo), perché ciò implicherebbe un ritiro delle forze israeliane ed americane dalle aree occupate. Tuttavia, assecondare in via indefinita un quadro di disgregazione della Siria in varie entità minori e conflittuali appare ben diverso da una definitiva ed esaustiva stabilizzazione del paese, col risultato che ogni giorno possano sorgervi nuove incognite anche per tutto il resto della regione. Un Kurdistan siriano indipendente o semi-indipendente de facto, e spalleggiato da Israele e dagli Stati Uniti, è visto come una minaccia vitale per la Turchia, che lo identifica come un avamposto del PKK, presente in Siria tra le fila delle SDF, per la destabilizzazione dei propri territori curdi; mentre sigle affiliate all'ISIS come l'ISIS-Khorasan o il Partito Islamico del Turkestan, da sempre ben radicati nel paese e oggi insieme ad HTS al potere a Damasco, ugualmente si presentano come un coltello rivolto contro la sicurezza nazionale di paesi come la Russia, la Cina, il Pakistan, l'Iran e nell'insieme tutta l'Asia Centrale, passando per l'Uzbekistan, il Kirghizistan, il Tagikistan o il Kazakistan. Abbiamo più volte raccontato, solo per fare un esempio, della sinistra azione del Partito Islamico del Turkestan nello Xinjiang e nei territori limitrofi, e così pure dell'ISIS-Khorasan tra Caucaso ed Asia Centrale. 

 

I governi occidentali mirano a normalizzare i rapporti con le nuove autorità della Siria, senza tuttavia dimostrare l'intenzione di favorirvi una ricomposizione nazionale che la riporti all'unità politica e territoriale; nelle loro ambizioni, infatti, spicca semmai il grande lucro che deriverà dalla ricostruzione nonché dalla privatizzazione delle tante proprietà pubbliche dell'ormai decaduto Stato socialista siriano, fino allo scorso 8 dicembre guidato dal Baath. Questa politica ci richiama apertamente quanto già visto in Iraq, dove gli occidentali all'indomani dell'invasione del 2003 hanno razziato tutto il possibile ed alimentato la suddivisione del paese in tre entità distinte de facto come il Kurdistan iracheno, il triangolo sunnita e le restanti aree a maggioranza sciita; e così pure quanto accaduto in Libia, dove i paesi NATO dopo l'aggressione militare del 2011 hanno lasciato che il paese restasse frammentato in varie entità minori, come i governi di Tripoli da una parte e di Tobruk e Bengasi dall'altra oltre a varie milizie locali indipendenti, mentre si garantivano l'appannaggio di molte delle sue immense ricchezze. Come abbiamo visto, questa politica di “caos gestito dall'alto” non ha comunque mai sortito effetti duraturi, vista la tendenza più volte manifestata dai due paesi a riaggregarsi territorialmente, non a caso poi frustrata da nuove ingerenze tese ad impedirlo; col risultato che alla fine, nonostante i tanti bastoni tra le ruote, una maggiore unità e un loro avvicinamento ai paesi giudicati dall'Occidente a guida americana come suoi “rivali strategici” (in primo luogo le grandi economie emergenti di Cina e Russia, e non solo) si sta comunque vedendo giorno dopo giorno. Vien da chiedersi dunque fin quanto l'approccio occidentale al caos siriano, che proprio l'Occidente ha più volte sin qui favorito ed alimentato, potrà risultare fruttuoso: la minaccia fondamentalista e terrorista che nel mentre continua a svilupparsi al suo interno rappresenta uno stimolo ad agire per tutte le nazioni limitrofe, così come per tutte quelle dell'ambito SCO. Esattamente come in Iraq e in Libia non è nel tempo mancato, sempre più visibilmente, il ruolo diplomatico, economico e politico dei paesi non allineati espressione della SCO, che ha favorito nei due paesi la possibilità di ritrovare maggiore unità e stabilità, così ciò avverrà pure in Siria, dove difficilmente si potrà fare a meno di loro. 

 

Proprio questa ragione spiega perché sia così essenziale per i paesi NATO mantenere la Siria instabile e divisa: in tal modo possono impedire o quantomeno ritardare una maggiore aggregazione nel quadro eurasiatico, fattore che di per sé sarà comunque inevitabile. Non è un caso che una serie di progetti come il Gasdotto dell'Amicizia (noto anche come Gasdotto Islamico, concepito per collegare l'Iran al Mediterraneo tramite l'Iraq e la Siria, scelto dal governo siriano nel 2009 e tra le cause della successiva politica esterna di destabilizzazione di Damasco) e il Corridoio di Sviluppo Orientale (grande infrastruttura per il transito delle merci dall'Asia Centrale al Mediterraneo attraverso i paesi del Golfo, l'Iraq e la Turchia) costituiscano insieme alla BRI (Belt and Road Initiative) delle vere e proprie arterie vitali in un simile processo d'aggregazione eurasiatica. Nemmeno è un caso che l'Occidente a guida americana guardi con fastidio all'espansione o alla realizzazione di simili collegamenti, capaci d'avvicinare sempre più il Mediterraneo e conseguentemente anche l'Europa al resto del blocco eurasiatico ed in particolare alla Cina, alla Russia e all'Iran. Washington, che già per queste come per altre ragioni vede sfuggire Ankara dalla sua sfera d'influenza, non è disposta ad accettare che un simile copione si ripeta in scala maggiore anche per i paesi europei, che ora più che mai dopo aver separato dalla Russia con la guerra in Ucraina può satellizzare strategicamente ed economicamente. La BRI come tutti gli altri nuovi progetti di collegamento eurasiatico in divenire rappresentano per Washington l'incubo da boicottare in ogni modo, in primo luogo costringendo finché può gli europei a contravvenire ai loro stessi interessi: per quanto tempo ancora, in ogni caso, è sempre lecito farsi qualche domanda.

 

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