L'Assemblea Generale ONU, convocata ieri mattina in una riunione speciale d'emergenza per affrontare i nuovi e preoccupanti sviluppi del conflitto israelo-palestinese in corso a Gaza, ha approvato a larga maggioranza una risoluzione in cui vengono richiesti un “immediato cessate il fuoco umanitario”, il rilascio immediato ed incondizionato degli ostaggi e la garanzia per un accesso agli aiuti umanitari. 153 i paesi che hanno votato a favore, 10 i contrari, 23 infine gli astenuti.
Non sorprende, tra quest'ultimi, la presenza italiana, soprattutto in ragione del forte declino conosciuto dalla sua politica estera e diplomatica nel corso dell'ultimo trentennio; ma in generale un po' tutto il Vecchio Continente sembra aver subito, a partire dagli Anni ‘90, un forte richiamo all’ordine da parte del più forte alleato d'Oltreoceano, vanificando ogni possibile sforzo a sviluppare nel frattempo una solida, credibile ed autonoma diplomazia europea. Non diversamente si può dire per altri paesi dell'UE come la Germania, sempre più affaticata locomotiva europea, l'Olanda, o ancora l'Ungheria, la Slovacchia, la Bulgaria e la Romania, sebbene a pesare sulle loro scelte sempre vi siano anche differenti questioni economiche ed altrettanto differenti eredità politico-diplomatiche. Tuttavia, l'approccio di Kiev sulla questione israelo-palestinese appare ad ora il medesimo di Roma o di Berlino. In Ucraina, indubbiamente, non vi è molta allegria circa il fatto che la nuova crisi scoppiata a Gaza sottragga loro fondi ed attenzioni, mentre gli alleati europei che più s'erano votati alla sua causa rimanendone profondamente coinvolti in termini economici e strategici come l'Italia e la Germania oggi temporeggiano: sanno di dover soppesare le loro mosse per non deludere Kiev e i suoi sostenitori, e al contempo nemmeno risultare latitanti alla chiamata di Tel Aviv.
Non è invece così per la Francia, che ha votato a favore dimostrando di voler proseguire con una politica estera più autonoma da Washington e da Londra, come già alcune fasi del conflitto in Ucraina avevano testimoniato; più estesamente, quella di Parigi verso il conflitto israelo-palestinese appare come una strategia tesa a recuperare gli aspetti migliori che l'Eliseo aveva in passato saputo dimostrare nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, abbandonati soprattutto a partire dalla presidenza di Sarkozy così come del successore Hollande, e al contempo a riguadagnare terreno anche altrove, in primo luogo nell'Africa Settentrionale e Subsahariana. Non sorprende che tale approccio sia fatto proprio anche da altri paesi come la Spagna e il Belgio, che analogamente hanno dato segno di voler stabilire con le nazioni del Medio Oriente una condotta più costruttiva, fino ad esporsi sulla necessità di procedere con la “soluzione dei due Stati” entrando così in collisione col governo israeliano: una “linea rossa” che evidentemente né Roma né Berlino intenderebbero invece oggi oltrepassare.
Potrebbe invece sorprendere, in virtù della fortemente atlantista, il voto a favore di paesi dell'Est Europa come la Polonia, l'Estonia o la Lettonia, mentre la Lituania ha preferito astenersi; ma una risposta può esser data dalla loro volontà di sfruttare degli spazi d'iniziativa in politica estera che il conflitto ucraino prima e quello israelo-palestinese hanno saputo offrir loro, e che adesso non a caso intendono esercitare a proprio vantaggio anche nell'ambito dei rapporti interni con gli altri paesi UE. Insomma, per molti paesi europei, probabilmente, il voto all'ONU sul conflitto israelo-palestinese è sostanzialmente un buon modo per esprimere il proprio peso e prezzo politico nella “borsa” del conflitto ucraino in corso non troppo lontano dai loro confini. Ne sono un esempio anche l'Austria e la Repubblica Ceca, che per converso hanno votato contro così allineandosi a Washington e Tel Aviv.
Fatte tali considerazioni, quasi non sorprende neppure l'astensione manifestata da Londra, che traccia un pur timido scollamento dalla linea di Washington sino a non molti giorni fa seguita pedissequamente anche dall'alleato britannico. Potrebbe in questo momento apparire come un'azzardata eventualità, ma nulla vieterebbe più avanti anche gli Stati Uniti si ritrovino costretti a far altrettanto, smarcandosi così da Israele: ciò rappresenterebbe uno stravolgimento epocale dopo decenni d'indiscusso sostegno a Tel Aviv. Ad ora gli Stati Uniti non possono certo permettersi un passo del genere se non sacrificando o mettendo comunque fatalmente a repentaglio i propri interessi politici e strategici in Medio Oriente; ma è allo stesso tempo vero che pure continuare sull'odierna linea dell'appiattimento ad Israele potrebbe, con maggior certezza, condurre ad un simile rischio, se non alla matematica certezza che esso s'avveri. Non a caso Washington ha avvisato Netanyahu ricordandogli che Israele sta perdendo il sostegno del mondo, e che dovrà pertanto fermare l'escalation prima che sia troppo tardi: in quella parte di “mondo”, potrebbero esserci anche gli Stati Uniti. L'implosione delle residue alleanze e capacità di controllo americane sul Medio Oriente metterebbe ancor più a nudo quale sia la direzione che da anni ormai la regione sta seguendo: e non è decisamente una direzione che conduce a Washington quanto piuttosto a Mosca e a Pechino.
Non è un caso che, seppur in fretta e furia, gli Stati Uniti abbiano elaborato un progetto per una governance di Gaza una volta finito il conflitto: il progetto, per ammissione dei suoi stessi creatore di non facile realizzazione, prevederebbe l'assegnazione di almeno parte del suo territorio all'Autorità Nazionale Palestinese, da raggiungersi col dispiegamento di forze d'interposizione internazionali e nuove elezioni. Il piano incontra forti ostilità anche a livello d'opinione pubblica palestinese, presso la quale ora più che mai il prestigio di Hamas tende a superare quello goduto dall'ANP e dal suo partito dominante al-Fatah, accusati di corruzione e di scarse capacità di controllo nella loro area di governo, la Cisgiordania. Tuttavia, questo piano rappresenterebbe pur sempre da parte di Washington un nuovo passo verso la “soluzione dei due Stati”, anche se intesa in una forma diversa da quella più comunemente riconosciuta all'ONU e soprattutto da altre potenze mediatrici come Russia e Cina. Allo stesso tempo, peraltro, rappresenterebbe pure un nuovo passo indubbiamente poco gradito da Israele, che evidentemente oggi comincia sempre più a giudicare l'alleanza con l'Occidente a guida americana non più “inesauribile” come un tempo.