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All'ONU e non solo: il conflitto israelo-palestinese e la fine del predominio USA

2023-11-30 16:00

Filippo Bovo

All'ONU e non solo: il conflitto israelo-palestinese e la fine del predominio USA

Se per più di un anno, per non dire quasi due anni, a dominare il dibattito all'ONU è stato soprattutto il conflitto in Ucraina, con uno scontro tra p

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Se per più di un anno, per non dire quasi due anni, a dominare il dibattito all'ONU è stato soprattutto il conflitto in Ucraina, con uno scontro tra paesi “allineati” e “non allineati” a Washington che è andato sempre più rafforzandosi nel tempo, ora è invece il conflitto israelo-palestinese a farla da padrone; e non è casuale che molti degli equilibri internazionali che s'erano instaurati nell'ultimo biennio, proprio a causa della posizione occidentale di condanna alla Russia, si ritrovino oggi ancor più radicalizzati davanti all'ennesimo sostegno occidentale, neppure troppo tacito, alla condotta di Israele. La politica di Washington e dei suoi alleati, riconducibile ad un “o con noi o contro di noi”, si ritorce dunque sempre più contro gli Stati Uniti e i loro alleati, già in passato non sempre ben visti per la loro tendenza a “pretendere un po' troppo” dagli altri loro interlocutori. Quella politica occidentale, che in molti casi era arrivata ad apparire davvero minacciosa o quantomeno intimidatoria, aveva incontrato sempre più manifeste contrarietà da parte degli altri paesi già al tempo della crisi ucraina; non deve dunque sorprendere che ora, in merito alla guerra nuovamente divampata a Gaza, incontri reazioni ancora più radicali.

 

Le ripetute invettive del governo e dell'ambasciatore israeliani all'ONU contro il Segretario Generale Antonio Guterres o contro altri paesi e loro governanti che hanno espresso posizioni di contrarietà, talvolta anche piuttosto miti o concilianti, nei confronti dell'azione condotta dalle forze armate israeliane, per esempio, appaiono ben poco difendibili. Di fronte alla crescente indignazione della loro opinione pubblica, anche paesi un tempo “comprensivi” verso Israele ed “accoglienti” verso le richieste d'appoggio avanzate da Washington oggi cominciano a manifestare crescenti segnali di nervosismo. Non va poi dimenticato come, rispetto anche all'ormai “passata di moda” questione ucraina, quella israelo-palestinese sia ormai a dir poco annosa, visto che sostanzialmente procede fin dal 1948, con continue recrudescenze spesso sfociate in conflitti aperti: la pazienza di molti è sempre più scarsa, il livello di consapevolezza è in aumento e la ferita, costantemente riaperta e fatta riammalare, non è ormai più tanto sopportabile.

 

Certo, è già di per sé positivo che alla fine sia stato raggiunto un sia pur parziale accordo per lo scambio di ostaggi e prigionieri: si poteva indubbiamente fare di più, ma considerando il livello a cui era giunto lo scontro tra le due fazioni sul campo, ed il salire della tensione in tutto il Medio Oriente, non è comunque cosa di poco conto. Potrà essere un utile precedente su cui lavorare affinché, gradualmente, si giunga ad una sosta più duratura per il conflitto, se non addirittura ad una sua utopica interruzione. I ripetuti attacchi a navigli israeliani nel Mar Rosso, da parte degli Houthi yemeniti che ora operano congiuntamente coi pescatori somali, è solo uno dei nuovi tasselli di un conflitto che pressoché quotidianamente vede, solo al confine con Israele, nuovi scontri in Cisgiordania e soprattutto al confine col Libano. Probabilmente, seguendo in questo anche i suggerimenti avanzati dalla stessa Washington, a Tel Aviv hanno capito che non era il caso di tirar troppo la corda, anche perché ormai erano in ballo oltre a quelli israeliani anche gli stessi interessi americani: ed evidentemente questo è un segnale geopolitico, storico e strategico di primissima importanza, perché ci testimonia come gli Stati Uniti non siano disposti oggi a spingersi sino al punto di sacrificarsi per Israele. 

 

Non sono soltanto in ballo le vicine elezioni presidenziali statunitensi, con la campagna elettorale già avviata, o le navi americane circolanti tra il Mediterraneo, il Mar Rosso e il Golfo Persico, civili ma soprattutto militari, o i rapporti formali o reali con gli alleati arabi della regione, o ancora il prezzo dell'energia che già allo stato attuale l'economia di Stati Uniti ed Unione Europea fatica a sopportare. E' in ballo tutto il prestigio degli Stati Uniti come superpotenza, cosa che in parte già è venuta meno: una loro sempre più espressa manifestazione d'impotenza, infatti, indicherebbe il collasso irreversibile del loro esteso sistema di predominio a livello globale. Non sarebbero più la “prima superpotenza mondiale” ma solo una “grande potenza regionale” od ancor meno: e questo incoraggerebbe molti loro alleati, cominciando dai più renitenti o “ballerini”, a sfilarsi avvicinandosi sempre più all'orbita altrui: ad esempio la Cina, o ancora la Russia, e più in generale i BRICS+. Israele aveva provato a dire agli Stati Uniti “o con me o contro di me”, proprio come gli Stati Uniti a loro volta avevano fatto col resto del mondo: ma la risposta è stata evasiva, traducendosi infine in un furtivo no. Intanto, però, molti osservatori europei si sono accorti come già non si parli più della “Via del Cotone”, quella che doveva in un qualche modo sottrarre l'India ai BRICS+ per farne la grande manifattura di un corridoio economico che sarebbe poi passato attraverso l'Arabia per giungere infine all'Europa e agli Stati Uniti. Doveva essere la risposta occidentale alla “Nuova Via della Seta” cinese, ed invece è bastato il semplice riavvampare del conflitto israelo-palestinese a farla sfumare, mentre i paesi arabi che un tempo manifestavano maggior vicinanza con Washington e perfino una qualche “vicinanza” con Israele oggi preferiscono guardare da tutt'altra parte o prendere tempo, aspettando momenti migliori. 

 

A metà novembre, intanto, il Consiglio di Sicurezza ONU ha approvato una risoluzione che chiede “pause e corridoi umanitari” per la Striscia di Gaza, e pure questa non dovrebbe passare sottotraccia essendo una svolta diplomatica epocale dopo settimane d'aspri negoziati ed ancor più aspri botta e risposta. Dodici i paesi che hanno votato a favore, con le sole astensioni di Stati Uniti, Regno Unito e Russia; in precedenza ben due risoluzioni russe ed una risoluzione brasiliana, che chiedevano le medesime cose sia pur con differenti toni, erano invece state respinte; non diversamente era stato per una risoluzione statunitense, in questo caso assai più conciliante verso Israele. Tuttavia il numero di paesi che votavano a favore di una risoluzione che ponesse fine alla “occupazione israeliana”, continuava sempre più a salire. Pure il fatto che sempre più spesso e sempre più apertamente si denunciasse la “occupazione israeliana” come tale, in sede ONU, appariva come qualcosa di nuovo, persino d'inedito, visto che fatta eccezione per i rappresentanti di alcuni paesi nessuno più la proferiva da almeno trent'anni. Ma ad emergere sempre più, in questo contesto, è soprattutto l'isolamento politico e diplomatico di Israele, il cui ambasciatore all'ONU Gilad Erdan pur parlando di una decisione “disconnessa dalla realtà e dal suo significato” appare sempre più messo da parte nel consesso internazionale insieme alle posizioni espresse dal suo governo. Le minacce avanzate in passato, tuttora reiterate, non destano più l'attenzione mediatica e politica che ricevevano solo fino a poche settimane fa, a testimonianza della profonda caduta di prestigio e credibilità accusata nel frattempo: semplicemente, gli altri interlocutori si voltano dall'altra parte e proseguono nella loro linea, lasciando cadere nel vuoto i richiami di Tel Aviv. Del resto, negando la gravità delle proprie operazioni sul terreno di Gaza ed accusando l'ONU di essere complice di Hamas, non poteva andare tanto diversamente.

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