Dopo l'eliminazione del vice di Hezbollah Fouad Shukr a Beirut e del capo dell'ufficio politico di Hamas Ismail Hanyeh a Teheran, molteplici sono le reazioni da attendersi: certamente una risposta delle due organizzazioni, che può avvenire nelle forme e nei tempi meno prevedibili, e del pari anche di Teheran, che deve a maggior ragione reagire a quella che è stata pure una grave violazione della sua sovranità territoriale. Qua inizia la parte più dura del gioco, che oggi più che mai è misurata secondo fattori come il tempo e lo spazio, ovvero fattori psicologici. In Occidente, di cui a prescinder dalla sua collocazione geografica Israele è pur sempre parte, al pari dei suoi alleati europei e nordamericani, il tempo rappresenta un'ossessione di cui raramente ci si riesce a liberare; non così invece in Oriente, dove la sua concezione può rispondere a ben altre filosofie, logiche ed utilità. Lo stesso ovviamente vale anche per il concetto di spazio, che raramente la cultura occidentale riesce a vivere in modalità analoghe alle varie culture orientali. Sappiamo però, anche dalla nostra esperienza personale, che perdere il controllo di concezioni come il tempo o lo spazio può precipitarci nell'ansia o persino nel panico: è quello che avviene quando siamo in enorme ritardo o quando ci perdiamo e non riusciamo più a ritrovare la strada. Se le due situazioni poi si combinano insieme, ci sentiamo addirittura perduti.
Questo stato d'animo connota ormai sempre più Israele e i suoi alleati, che si rendono conto d'aver davanti a sé una guerra ormai perduta e una situazione in ogni caso irrimediabile. E' quindi sull'inasprimento di questo stato psicologico che l'Iran e le organizzazioni della Resistenza palestinese giocano per massimizzare oggi quanto più i propri futuri risultati: in primo luogo proprio le risposte che dovranno dare ad Israele per le azioni su Beirut e Teheran. Non vi è necessità di correre, proprio perché tali risposte potranno qualificarsi nei tempi e nelle modalità meno prevedibili, nel frattempo logorando il nemico nell'attesa e pianificando pure le dovute contromisure alle sue possibili reazioni. Israele è ossessionata dai tempi, perché davanti a sé ha due sole opzioni: o risolvere questo conflitto da sola e “prima che sia troppo tardi” oppure estenderlo coinvolgendo i suoi alleati occidentali sul campo, anche in questo caso sempre “prima che sia troppo tardi”. Non ha il tempo dalla sua parte, contrariamente ai suoi avversari; ma anche i suoi alleati non lo hanno, e ne sono analogamente consapevoli. Gli avversari invece sono perfettamente consapevoli d'averlo, e giocano sempre più su questo vantaggio. Del pari, hanno anche il vantaggio dello spazio, dato che sono in grado d'avviare i vari fronti di maggior intensità del momento a seconda dell'iniziativa strategica di cui analogamente detengono il controllo; possono quindi costringere Israele a dover rispondere quando ad un fronte da sud, a Gaza, quando da nord, nel Libano, quando dal Mar Rosso, nello Yemen, o ancora da est, nell'Iraq. Nell'insieme, tutto l'Asse delle Resistenza e le organizzazioni e paesi che gli sono vicini detiene un triplo vantaggio: il controllo del tempo, dello spazio e dell'iniziativa strategica.
Nel frattempo Yahya Sinwar è stato eletto nuovo capo dell'ufficio politico di Hamas, di cui è tra i fondatori dell'ala militare e dal 2017 guida a Gaza; già questa nomina porta a capire quanto guerra e politica vadano a mischiarsi nella nuova strategia, o meglio nel suo salto di qualità, che caratterizzerà il futuro dell'organizzazione. E' prevedibilmente parte di un più grande inasprimento militare complessivo, che oltretutto va a coincidere con una fase in cui Israele vede i suoi sistemi antimissile Iron Dome sempre più contestati per le loro crescenti difficoltà nel fronteggiare il crescente numero di razzi e droni che entrano nel suo spazio aereo. Il sistema erede dell'Iron Dome, l'Iron Beam, non diverrà operativo prima del 2025, e nel frattempo Israele dovrà cavarsela con un armamento che malgrado i costanti e consistenti invii americani non basterà comunque a contrastare i ben meno costosi dispositivi lanciati sul suo territorio, peraltro pure da molteplici parti. Quel che è certo, è che Sinwar oltre che un leader “radicale”, noto per la sua vicinanza a Teheran, a segnare un ulteriore avvicinamento di Hamas all'Iran, è anche un abile giocatore politico che sa come l'uso della guerra possa far parte della strategia politica; a maggior ragione se l'avversario si trova a non avere più una chiara o credibile strategia, al di fuori del salvarsi dal vicolo cieco in cui s'è gettato da solo.
Israele e la sua leadership sono dunque in una situazione sempre più difficile: dopo più di dieci mesi di combattimenti, non soltanto s'acutizza il malessere della società, che trova espressione nelle sempre più accese manifestazioni popolari, ma anche quello in seno ai vertici, col sordo confronto tra il premier Benjamin Netanyahu e il suo ministro della Difesa Yoav Gallant, entrambi con un mandato di cattura internazionale a gravare sulle loro teste. Non va meglio per l'economia, messa alle prove dal lungo conflitto che costa una fortuna all'erario, col porto di Eliat bloccato e il turismo sfumato, senza più la manodopera palestinese e 100mila coloni sfollati dal nord. Pesano anche i vecchi ricordi di guerra, con le forze israeliane che nel 2005 dovettero ritirarsi da Gaza a fronte di una Resistenza ben più debole, così come nel 2006 non riuscirono a prevalere su Hezbollah in Libano. A tacer dei precedenti, giacché si potrebbero ricordare pure gli esiti dell'operazione Pace in Galilea del 1982, che analogamente non diede ad Israele alcun reale vantaggio in Libano: entratavi per combattere l'OLP, causò la nascita di un nemico ben più temibile come Hezbollah oltre a ricoprirsi, nella sua occupazione, di tutto fuorché d'onori. Probabilmente è anche per questo se la tanto decantata offensiva contro Hezbollah, annunciata da mesi, è stata nel frattempo messa da parte: Israele sa che quel nemico è oggi ancor più temibile, preparato ed agguerrito che in passato, e se già allora non riuscì a prevalervi e men che meno a debellarlo, a maggior ragione ben difficilmente potrebbe riuscirvi oggi.
Così, dinanzi ad un nemico cacciatosi da solo nel vicolo cieco, l'Asse della Resistenza non può che approfittarne e sfruttare i propri vantaggi nel controllo del tempo, dello spazio e dell'iniziativa strategica per acuirne lo stato di panico. L'obiettivo delle forze dell'Asse della Resistenza è di logorarlo secondo il principio, espressamente rivendicato da Teheran, per cui “l'attesa fa parte dell'attacco”. Rispetto a quando Teheran e i suoi alleati risposero all'attacco israeliano all'Ambasciata iraniana a Damasco, i tempi della reazione appaiono già oggi dilatarsi: quella volta fu dopo meno di circa 13 giorni, mentre ormai siamo molto più avanti. Tenendo conto delle varie festività islamiche, sia del calendario sciita che sunnita, bisognerà valutare un arco di tempo che potrebbe tranquillamente abbracciare anche buona parte di settembre: questo sia per un ovvio rispetto della sensibilità dei fedeli, ma anche tenendo conto di certe particolari simbologie che donerebbero un “valore aggiunto” ad una “vendetta” compiuta in un determinato giorno anziché in un altro. Qua entreremmo però in un ambito più consono ad un esperto di storia e teologia religiose che ad un analista geopolitico, e rischieremmo d'allungare troppo una dissertazione già più che bastevole a farci capire quale sia la situazione sul campo e nelle menti dei vari attori in gioco.