Dopo gli attacchi iraniani avvenuti nella notte tra il 13 e il 14 aprile scorsi, Israele aveva giurato una sua “vendetta” e qualcosa, pur andando contro il parere dei suoi stessi alleati, doveva quindi fare. Si trattava, sostanzialmente, di riaffermare il proprio “onore” guadagnandosi l'ultima parola in un botta e risposta con Teheran che a ben guardare risaliva a ben prima del famoso attacco all'Ambasciata iraniana a Damasco del 1 aprile.
Tuttavia non è parso nulla di più rispetto alle solite azioni già compiute da Israele anche in tempi di “pace”, figurarsi di guerra: le frequenti incursioni israeliane che spesso hanno riguardato paesi come la Siria o il Libano, danneggiati nella loro già precaria sovranità e sicurezza interna, possono esserne una più che nutrita prova. In questo caso abbiamo visto attacchi limitati su Siria ed Iraq, la prima membro e la seconda alleato dell'Asse della Resistenza, entrambe con al proprio interno milizie nazionali sciite e forze iraniane a sostegno dei propri governi; e due colpi invero piuttosto modesti nelle città di Tabriz ed Isfahan, rispettivamente nel nordovest e nel centro dell'Iran, da parte di un gruppo dissidente manovrato dall'esterno che s'è avvalso di piccoli droni quadricotteri. Né a Tabriz né ad Isfahan sono stati colpiti obiettivi militari e di sicurezza, e men che il reattore militare nel sito di Natanz, anche perché i piccoli velivoli sono stati ben presto abbattuti.
Israele ha condotto l'azione, a quanto risulta, senza consultarsi coi propri alleati, a cominciare da Washington, cogliendoli così di sorpresa e potenzialmente ponendoli di fronte ad uno sgradito imbarazzo internazionale. Peraltro, pensando a quanto elevata era stata la tensione nei giorni scorsi, nel garantire una risposta israeliana che sarebbe stata “memorabile”, viene ora da pensare che la montagna abbia partorito un topolino. Certamente per Israele è stato anche un modo per meglio valutare l'efficacia e la reattività del sistema di sicurezza e difesa iraniano, anche nell'ipotesi di poter approfittare d'eventuali sue lacune in futuro; lo stesso principio, non tanto diversamente, vale anche per i suoi alleati e proxy regionali, e per la capacità iraniana di coordinarsi con loro per livello di tempistica e d'efficacia. Non ultimo, è stato anche un metro per saggiare la pazienza e la disponibilità dei propri alleati, di cui indubbiamente dubita, e al contempo degli alleati e dei “partner di dialogo” di Teheran. Posto in tali termini, il piccolo colpo israeliano, poco più che un atto dimostrativo, potrebbe avere anche un suo perché; ma il danno d'immagine che comunque ne deriva per il paese e la sua leadership probabilmente non basta a colmare questo piccolo risultato.
Innanzitutto agendo in tal modo Israele ha dimostrato o comunque ancor più confermato le proprie “complicità” con parte almeno dei gruppi della dissidenza iraniana, non di rado con buoni legami presso i governi occidentali che assicurano loro forti sostegni politici ed economici. In Iran non avevano certamente bisogno di scoprirlo, perché già lo sapevano, ma può far comodo poter adesso esibire quanto avvenuto a Tabriz ed Isfahan proprio come una “pistola fumante”, ovvero la classica prova di fronte alla quale è difficile poter negare a livello mediatico ed internazionale. Non a caso da parte israeliana non vi sono state rivendicazioni particolari: mai come in questi casi conviene gettare il sasso e nascondere la mano. Solo ad un certo punto, a dimostrazione anche delle crescenti fratture in seno ai vertici israeliani, il Ministero per la Sicurezza Nazionale ha espresso insoddisfazione per com'è stata condotta la risposta all'Iran, definendola ridicola. Nella montante conflittualità che caratterizza il vertice politico, militare e d'intelligence israeliano, insomma, chi può cerca di rifiutare proprie responsabilità, mentre altri puntano l'indice esprimendo una propria dissociazione, credibile o meno che sia.
Oltretutto, con una tale risposta, Israele ha pure messo a nudo o comunque ancor più evidenziato rispetto al passato molti punti deboli nella propria rete d'alleanze così come nelle proprie effettive capacità offensive, un errore strategico che ne sminuisce la credibilità e la temibilità nella regione. Non solo l'Iran ma anche altri attori regionali potrebbero in futuro approfittare a loro volta di tali lacune, sapendo che vi è molto meno da rischiare di quanto creduto in passato. Anche a livello internazionale, di fronte ad un Israele molto meno credibile e temibile sul piano militare rispetto al previsto, il comportamento sia degli alleati che degli altri attori autonomi potrebbe conoscere delle significative fluttuazioni, ad esempio in sede ONU, con riscontri intuibilmente poco gradevoli per la leadership israeliana. Non andrebbe neppure sottovalutato come il recentissimo veto degli USA al Consiglio di Sicurezza ONU ad una piena adesione dello Stato di Palestina abbia già suscitato forti malumori anche tra paesi alleati di Washington ed Israele, oltre a severe condanne da parti dagli altri membri del Consiglio come in primo luogo Cina e Russia. Le azioni impotenti ed irresponsabili di Israele nella regione, oltre a contribuire a radicalizzare sempre più le posizioni internazionali, potrebbero rapidamente trasformarsi in uno spiacevole boomerang per il governo israeliano e i suoi partner, inducendone una parte sempre più nutrita a prendere le distanze e a modificare sensibilmente la propria linea politica per il Medio Oriente.
Dopo gli attacchi a Tabriz ed Isfahan non sono infine mancate neppure fake news o speculazioni mediatiche destituite tuttavia di prove o fondamento: ad esempio, fonti armene hanno parlato di un coinvolgimento azero, dichiarando che i droni nelle due città non potessero esser partiti che dall'Azerbaigian. Tuttavia, le stesse fonti iraniane parlano di gruppi interni, escludendo che i droni possano essere entrati dal confine settentrionale, e non soltanto perché ciò equivarrebbe a dichiarare la fragilità delle proprie frontiere, o comunque la difficoltà nel garantirne il controllo e la sicurezza. Vero è invece che, nella questione del Nagorno-Karabah, mal digerita in Armenia dopo lo scioglimento dell'ex repubblica dell'Artsakh e il suo ritorno sotto la sovranità azera, ambienti nazionalisti locali abbiano sempre più cominciato ad alzare i toni, indicando in un tradimento russo e nei sostegni turchi od israeliani all'Azerbaigian le ragioni della propria “sconfitta”. Analisti armeni, tramite i propri canali Telegram, hanno così iniziato a diffondere la notizia di una responsabilità azera in quanto visto in Iran, trovando facile ascolto presso parte del pubblico occidentale, soprattutto “sovranista”.
E' da considerare che Tabriz è capoluogo della regione iraniana nordoccidentale dell'Azerbaigian interno, mentre Isfahan è al centro del paese, più a sud e distante dall'altra quasi 900 chilometri: ben difficilmente dei droni avrebbero potuto attraversare la frontiera coprendo simili distanze senza venir notati, ancor più se diretti verso obiettivi sensibili. A muoverli, insomma, non potevano che essere gruppi interni, in intelligenza col nemico.