Nella notte tra il 13 e il 14 aprile l'Iran ha fatto decollare 170 droni Shahed-136 oltre a lanciare 110 missili balistici e 45 missili da crociera verso Israele, come risposta all'attacco israeliano all'Ambasciata iraniana a Damasco del 1 aprile, dove sono morte 11 alte personalità tra le quali una figura di primo piano dei Pasdaran, Mohammed Reza Zahedi. La sua morte, secondo Israele, costituiva il secondo “omicidio eccellente” dopo quello del Generale Qasem Soleimani, ucciso da un'azione israeliana condotta quattro anni fa in Iraq. La risposta dell'Iran, annunciata fin da subito, non poteva dunque non esprimersi, dal momento che colpendo la sua Ambasciata Israele ne aveva in termini di diritto violato la sovranità territoriale, insieme a quella del paese ospitante, la Siria, stretto alleato di Teheran a cui è legata nel cosiddetto “Asse della Resistenza”.
In termini economici, il suo attacco non è costato più di 60 milioni di dollari, laddove per proteggere Israele l'intero Occidente ha invece speso ben 1,1 miliardi di dollari tra Patriot, Arrow, Iron Dome e via dicendo: questi sarebbero i classici "conti della serva" che dovrebbero far riflettere chiunque abbia un minimo di spirito critico, anche perché di analoghi com'è noto ne potremmo fare, ed oltretutto con ben più eclatanti e grottesche sproporzioni, pure nel caso del conflitto tra NATO e Russia in Ucraina. In termini militari, invece, una parte dei droni è stata sì abbattuta dagli F-35 israeliani, americani ed inglesi nei cieli della Giordania, il solo tra i paesi arabi che abbia concesso l'uso dei suoi cieli per difendere Israele, diversamente dagli altri che invece hanno preferito sottrarsi o addirittura già espresso in precedenza un netto rifiuto: pure questo fa capire assai bene quanto diversa sia oggi la "geografica delle alleanze" in Medio Oriente, con Israele sempre più isolata e l'influenza USA ridotta sempre più ad un mero ricordo in rapido corso d'evaporazione. Ma il rimanente dei droni è invece giunto regolarmente su Tel Aviv, e così anche i missili che hanno raggiunto le basi aeree di di Nevatim e Ramon, presso Eliat, nel Negev: là, nonostante la protezione dei Patriot, i danni sono stati riportati ed infine ammessi pure dagli stessi comandi militari israeliani. Proprio da questi siti militari erano partiti gli F-35 responsabili dell'aggressione a Damasco: elevandoli tra i principali obiettivi della sua risposta, l'Iran ha inteso così fornire un attacco a strutture militari evitando quelle civili, e conseguentemente privando Israele di possibili appigli per poter giustificare a livello internazionale una propria contro-risposta tesa ad allargare la portata del conflitto in Medio Oriente.
I droni e i missili azionati dall'Iran, tuttavia, non hanno colpito solo gli obiettivi militari israeliani, ma anche le basi USA ad Erbil e al-Asad, in Iraq. In questo modo è stato così "facilitato" il percorso agli altri ordigni diretti su Israele, ma al contempo pure lanciato un forte segnale politico e strategico agli stessi USA: "fatevi gli affari vostri, non mettetevi di mezzo". A quanto pare ha funzionato benissimo, visto che il Presidente Biden, nella sua successiva telefonata con Netanyahu, ha detto che gli USA non sosterranno Israele in eventuali controrepliche all'Iran e di non ritenere che l'attacco iraniano possa implicare un'espansione della portata della guerra come invece paventato dalla leadership israeliana. In più, e qui torniamo al declino dell'influenza statunitense in Medio Oriente, con quali basi gli USA potrebbero effettivamente attaccare l'Iran se nessun paese dei dintorni gliele autorizza? Più di metà delle forze statunitensi in Medio Oriente, circa 58mila effettivi come da dati del 2023, sono infatti ubicate in Kuwait e Qatar, ossia in paesi che già giorni fa avevano dichiarato di non voler concedere l'uso delle basi nel loro territorio per colpire l'Iran o gli obiettivi iraniani nella regione, dato che ciò sarebbe andato contro i mutui interessi stabiliti a suo tempo con gli stessi USA oltre ad infrangere le clausole dei contratti di concessione; nonché a far pure degli stessi Kuwait e Qatar nuovi obiettivi di una successiva risposta dell'Iran, con cui hanno invece tutti gli interessi a mantenere i buoni rapporti fin qui sviluppatisi. Con 13mila militari statunitensi ciascuno, Kuwait e Qatar sono i paesi mediorientali a maggiore presenza USA, seguiti dal Bahrain con 9000, dagli Emirati Arabi Uniti con 5000, da Gibuti con 4500, dall'Arabia Saudita con un numero variabile tra i 3000 e i 4500, dalla Giordania con 3000, dall'Iraq con 2500-3000, dalla Siria con 1000-2000, dalla Turchia con 1000 e dall'Oman con 500. Anche molti di loro, già si sa o si può altrimenti facilmente intuire, non intendono e del resto nemmeno potrebbero compensare al condivisibile "vuoto" di Kuwait e Qatar.
Con le basi residue sarebbe impossibile in termini pratici portare avanti un'azione seria e non a rischio per gli USA e per Israele, come del resto e a maggior ragione pure per i paesi concedenti. L'Arabia Saudita gradirebbe, per esempio, che paesi che le sono strettamente limitrofi come Gibuti o il Bahrain cedano ad eventuali pressioni statunitensi? E men che meno lo gradirebbero altri importanti partner, regionali ed extraregionali. Persino gli Emirati Arabi Uniti, ultimi irriducibili, giorni fa si sono defilati dal mantenere un rapporto con Israele, anche perché il loro gioco in sinergia con quest'ultimo e con gli USA tra Medio Oriente e Corno d'Africa li stava conducendo in un vicolo cieco geopolitico e strategico sempre più simile ad un vero e proprio “pantano”. Quanto ad eventuali attacchi dal mare, gli Houthi hanno dimostrato che anche lontani dalle coste si corrono rischi; e poi non sempre il mare può sostituire la terra, e viceversa, e non solo per sferrare un attacco che avrebbe comunque conseguenze sui propri sempre meno difendibili obiettivi nella regione. Peraltro, nel momento in cui l'Iran rispondeva ad Israele con la sua azione via cielo, i suoi missili erano puntati anche sulle basi statunitensi nella regione: nulla vieterebbe, in caso diverso, di puntarli sugli obiettivi di mare, come le navi, anziché di terra. Lo stesso, del resto, vale anche per le altre forze alleate di Teheran che hanno partecipato alla risposta contro Israele: oltre all'Iran e ai già nominati Houthi nello Yemen, i lanci sono stati effettuati anche dagli sciiti iracheni di Katahib Hezbollah, da quelli libanesi di Hezbollah, entrambi ben coperti dal "lasciar fare" delle loro leadership nazionali, ed ovviamente anche dal governo siriano: insomma, tutto l'Asse della Resistenza e un po' di loro vecchi e nuovi alleati che gli sono più o meno "organici". Tutto ciò mentre la Turchia, membro NATO, si presentava come "avvocato diplomatico" dell'Iran, mentre l'Algeria ne lodava l'azione, e via dicendo con tutti gli altri paesi arabi e mediorientali ciascuno in modo più enfatico o meno.
Tornando agli USA, ma ciò vale anche per gli europei, ci sono poi pure delle buone ragioni interne per non avventurarsi in inopportune avventure militari proprio adesso: c'è la campagna elettorale per le presidenziali, con le elezioni che si terranno a novembre. I democratici non hanno voglia di chiudere la loro amministrazione con una guerra in Medio Oriente, mentre Trump a sorpresa s'è manifestato "insospettabilmente" morbido e comprensivo verso gli iraniani: ma a tutto c'è una spiegazione, ed è quella che, mentre a novembre il 70% dei cittadini americani era a favore della condotta di Israele, oggi invece meno del 30% ancora l'approva, mentre coloro che la condannano sono saliti al 55% e la loro percentuale continua a crescere ancora, con una forbice che difficilmente si sgonfierà nei prossimi mesi. I candidati, uscente e sfidante, non possono non tenerne debitamente conto. Mentre nell'UE analogamente la campagna per le europee sta entrando nel vivo, e l'umore dei cittadini non pare dei più propizi verso una politica estera o persino militare d'assistenza ad Israele: tant'è che aumentano pure i governi dei vari paesi membri che sposano la linea dei due Stati, dichiarandosi disponibili al riconoscimento dello Stato palestinese e sollecitando gli altri governi dell'Unione a fare altrettanto.
Merita infine una piccola ma importante menzione il fatto che, un'ora prima dei lanci iraniani, la rete elettrica e di sicurezza israeliana fosse andata momentaneamente nel caos, soprattutto nei grandi centri come Tel Aviv e Netanya, a causa di un attacco informatico condotto da Teheran: in tal modo l'Iran ha dimostrato ad Israele e ai suoi alleati occidentali, sebbene non fosse di per sé un'assoluta novità, di saper ben utilizzare gli strumenti e le tecniche informatiche con cui condurre una guerra anche a livello cibernetico. Esattamente come in termini militari, l'Iran è dunque in grado di tener testa ai propri rivali strategici anche su questo nuovo fronte di guerra, oggi sempre più attuale: in tal caso, oltre ad aver rappresentato un serio avvertimento a costoro circa le proprie capacità, è stato pure un ottimo strumento per creare scompiglio prima dell'attacco vero e proprio, tramite droni e missili. Lo scompiglio sia psicologico che pratico, peraltro, era stato ben coltivato anche nel corso del pomeriggio con l'azione iraniana che nello Stretto di Hormuz aveva portato al sequestro di un mercantile israeliano, in un'operazione rapida e che non aveva lasciato morti o feriti. Oltre allo scompiglio, il sequestro lanciava pure un ulteriore e chiaro segnale o quantomeno promemoria: l'Iran e i suoi alleati possono, in qualunque momento, chiudere o boicottare le vie di mare frustrando, come già accennato in precedenza, ogni ulteriore ipotesi di utilizzarle per i propri attacchi militari, oltre che per i propri transiti economici regolari.
Di conseguenza, non rimaneva altro ad Israele come pure agli USA che cercar quantomeno di vendere propagandisticamente una vittoria sui droni e i missili lanciati da Teheran, dando ad intendere d'averli abbattuti tutti quanti, a costo persino d'aumentarne il numero così da gonfiare ancor più i propri successi: volendo fare qualche paragone col già accennato conflitto in Ucraina, una modalità mediatica che ricorda molto da vicino i comunicati di Kiev, quando annuncia d'aver abbattuto missili ipersonici russi con la propria contraerea ordinaria, o altri dati mirabolanti che difficilmente possono trovare un benché minimo credito tra gli addetti ai lavori. Non diversamente poteva essere per l'annuncio israeliano che una risposta ai lanci iraniani vi sarebbe comunque stata, addirittura entro la scorsa notte. Seppur persino accuratamente descritto nei suoi dettagli, è ben presto parso chiaro che non sarebbe avvenuto quando le stesse forze armate di Israele hanno invece dichiarato che nel giorno successivo scuole e luoghi pubblici sarebbero stati regolarmente aperti. Tra l'altro lo stesso Netanyahu ad un certo punto ha cominciato a correggere il tiro, specificando che la vendetta israeliana ci sarebbe stata al momento giusto e non subito. Se ne può facilmente dedurre che all'interno dei vertici israeliani le fratture siano in aumento, sia a livello di vertici politici che militari e d'intelligence oltreché tra di loro, anche per effetto della lezione iraniana e del fatto che oltretutto Teheran ben 72 ore prima avesse avvisato Washington, che tuttavia a sua volta non aveva debitamente informato Tel Aviv. Israele si sente "tradita" ed "isolata" anche dai suoi alleati di fiducia, quelli su cui credeva di poter fare per sempre facile e garantito affidamento, e soprattutto "lasciata sola" dinanzi alle sue crescenti e sempre più palesi fragilità. Per esempio, sempre per effetto della risposta iraniana, Israele non procederà neppure con l'azione di terra su Rafah: ben si può comprendere dunque perché i palestinesi l'altra sera, alla notizia dei lanci iraniani, scendessero in strada felici mentre alla moschea di al-Aqsa ci fosse aria di festa.