La continua evoluzione del conflitto in Ucraina, con brusche accelerazioni e montanti tensioni intervallate da momentanei periodi di stallo, ha visto negli ultimi mesi un trattamento sempre più schizofrenico da parte dei media occidentali, che riflette il caos strategico e decisionale dei vertici politici e militari dei loro paesi. Per molto tempo, era parso che il conflitto dovesse gradualmente spegnersi in una graduale agonia, mentre altri elementi parevano indicare la volontà di un suo impossibile congelamento caratterizzato da quotidiane scaramucce tali da non alterarne la staticità: simili letture si rifacevano alle varie fasi del conflitto, tenendo conto anche del progressivo diminuire degli aiuti militari ed economici a Kiev. Tuttavia, queste letture dovevano tener conto dell'iniziativa dei vari protagonisti in campo, che non necessariamente ambivano a muoversi in sincronia: da una parte Stati Uniti, Inghilterra ed Unione Europea, oltre ovviamente alla stessa Ucraina; dall'altra la Russia. Non sempre tutti i paesi del campo occidentale erano concordi sul da farsi, e mentre alcuni gradivano una riduzione della tensione altri invece puntavano, forzando la mano, ad accelerarla: ciò metteva in luce frequenti spaccature nella NATO, almeno parlando per quelle sue nazioni che nel conflitto svolgevano un ruolo attivo, di cobelligeranza. Ugualmente, l'Ucraina spesso mirava con azioni brusche sul fronte a mettere i propri alleati e fornitori dinanzi al fatto compiuto, costringendoli indipendentemente dalla loro espressa volontà ad aumentare il loro supporto. Infine la Russia, malgrado i suoi più volte ripetuti inviti al dialogo, non intendeva certo stare ai tempi e al gioco altrui, ad esempio facendo seguire risposte simmetriche agli attacchi sul fronte o agli attentati in patria, ma portava avanti la propria strategia non di rado cogliendo di sorpresa gli analisti che in Occidente miravano a darne future previsioni.
Gli attentati al North Stream 1 e 2, al Ponte di Kerch e ad altri obiettivi in territorio russo, o a varie personalità russe come Daria Dugina, sono stati tra gli episodi che maggiormente hanno segnato il crescendo di tensioni tra fronte occidentale e Russia, segnando dei punti di non ritorno che andavano a certificare come in seguito i margini per dei negoziati si sarebbero fatti da quel momento sempre minori, a tacer poi delle possibilità di ritornare ad uno status politico prebellico. Tali attentati vedevano a seconda dei casi la mano ucraina o dei suoi sostenitori in area NATO maggiormente bellicosi, come ad esempio l'Inghilterra, gli Stati Uniti o alcuni loro precisi partner europei come i baltici o gli scandinavi. Si delineava, con le varie inchieste che andavano a susseguirsi da parte di analisti indipendenti, la responsabilità parziale o persino completa di uno o più protagonisti, tra chi aveva assunto l'iniziativa e chi invece l'aveva più semplicemente accompagnata o seguita, rendendola possibile. Celebre, a tal proposito, fu l'inchiesta del Premio Pulitzer Seymer Hersch in merito all'attentato al North Stream 1 e 2, lungamente smentita dai diretti interessati ed infine passata sotto silenzio nel momento in cui appariva praticamente inattaccabile. Mentre, per quanto riguardava gli attentati costati la vita a Daria Dugina e ad altre personalità russe come Vladen Tatarsky o Stanislav Rzhitsky, o a basi militari ed infrastrutture strategiche in territorio russo come ad esempio in Crimea, a Klintsky e a San Pietroburgo, fu facile appurare che la responsabilità fosse del GPU, il servizio d'intelligence ucraino che da anni vanta in Russia sue diffuse e ben celate presenze. Del resto, difficilmente tali azioni potevano avvenire senza una copertura da parte NATO ed in particolare statunitense, a seconda del caso con un “via libera” che seguiva una consultazione condotta apparentemente all'insaputa degli altri alleati o con un prestabilito “carta bianca” che magari comprendeva opportuni limiti operativi, ma sempre e comunque nella forma di un essenziale supporto d'intelligence. Ciò appariva ancor più evidente nel caso d'attacchi che richiedevano un supporto tecnico, comunicativo e d'intelligence al di sopra della portata di Kiev, come ad esempio quelli ripetutamente condotti contro il Ponte di Kerch.
Lo scoppio della guerra a Gaza col susseguente arco di crisi venutosi ad aprire in buona parte del Medio Oriente, dallo Yemen con l'entrata in campo degli Houthi sul Mar Rosso all'Iraq, fino alla Siria e al Libano, suggeriva un aumento delle volontà occidentali, in diversa misura sia europee che statunitensi, di “dismettere” quanto prima possibile il conflitto in Ucraina per potersi a quel punto meglio concentrare negli sforzi tesi a condurre l'alleato Israele fuori dal sempre più evidente pantano in cui si dimenava col proseguimento delle ostilità. Ciò tuttavia è vero solo in parte, proprio perché gli alleati di Kiev, gli stessi di Israele, mirano per l'appunto “in diversa misura” a “dismettere” o “ridimensionare” il vecchio conflitto, ammesso e concesso che “dismettere” o “ridimensionare” siano poi i termini giusti: ognuno di loro mira insomma a ridurre il proprio livello di coinvolgimento e i relativi rischi alla luce dei propri interessi, che siano quelli già maturati o quelli futuri. L'importanza attribuita ad Israele rispetto all'Ucraina, per l'opinione pubblica statunitense ed europea, è intuibilmente diversa e non solo per meri fattori geografici, e con le elezioni alle porte negli Stati Uniti e in Unione Europea questo aspetto acquisisce una maggior importanza anche ai loro stessi vertici; così pure in Inghilterra, dove comunque nel corso del 2024 si voterà per la nuova maggioranza. Se negli Stati Uniti e in Inghilterra non sono indicate come favorite le forze uscenti, benché determinate a vendere cara la propria pelle, nel caso dell'Unione Europea la previsione è che a fronte di un parlamento comunitario segnato da una forte avanzata dei gruppi euroscettici corrisponda come già avvenuto finora una “serrata” della Commissione Europea, con una “grossa coalizione” formata dai partiti uscenti come PPE, PSE, ALDE e Verdi, oltre alla consueta stampella di membri indipendenti ad essi più o meno affini.
L'Unione Europea, che già per bocca della presidente della Commissione Uscente Ursula Von Der Leyen aveva dichiarato in passato la volontà di mantenere il sostegno all'Ucraina anche dopo la sua graduale riduzione da parte statunitense, appare in questo momento intenzionata a prendervi il ruolo di comando, sempre almeno in termini di supporto militare e finanziario. Nuovi richiami in questi giorni sempre da parte della presidente circa la non imminenza ma neppure impossibilità di una guerra diretta tra Unione Europea e Russia, indicano che a Bruxelles si prevede il mantenimento di una Commissione in continuità politica con le precedenti, malgrado i prevedibili scenari elettorali che verranno a sostanziarsi in primavera, e la volontà di surrogare in via crescente agli Stati Uniti nella guida di un conflitto che geograficamente è alle sue porte. Dopo aver cavalcato la guerra in Ucraina per staccare Bruxelles dalla Russia e svuotarla di risorse a proprio vantaggio, gli Stati Uniti lasciano così l'Unione Europea effettivamente “col cerino in mano”, con un'Ucraina in macerie e fiamme e il condizionamento interno dei suoi membri più atlantisti come la Polonia, le tre repubbliche baltiche o la Romania, a continuare a dedicarvisi. Del resto sono soprattutto le loro imprese, insieme a quelle statunitensi, a vantare i maggiori interessi e soprattutto le maggiori certezze sulla futura ricostruzione ucraina, come i fondi e i guadagni multimiliardari già in buona parte spartiti e dilapidati; mentre la campagna di riarmo della NATO, sempre con capitali da capogiro, ha ugualmente visto proprio l'asse tra Stati Uniti ed alleati baltici e balcanici i principali beneficiari.
Questo rapporto privilegiato tra Stati Uniti ed alleati esteuropei è destinato ad evolversi con l'arrivo di una maggioranza repubblicana alla Casa Bianca: da sentinelle armate e bellicose al confine ucraino e lungo i confini russo e bielorusso, potranno con facilità assumere un peso anche nei negoziati che inevitabilmente si dovranno tenere per una futura conclusione del conflitto, o quantomeno per un suo congelamento, anche perché Donald Trump non ha mai fatto mistero che da presidente mirerebbe ad accelerare nella ricerca di una tregua con Mosca per concentrarsi su altri fronti, in primo luogo il Medio Oriente e il Pacifico. Ma l'arrivo di un nuovo presidente alla Casa Bianca avrebbe un peso anche nei rapporti con gli alleati dell'Europa occidentale, che a questo punto mirano a riaffermare il proprio peso nella NATO e nell'Unione Europea indossando vesti ancor più bellicose, che tagliano la strada ai partner e concorrenti esteuropei: sanno, al pari degli altri, che un Trump nuovamente presidente vorrebbe minimizzare l'impegno statunitense nella NATO lasciandone il carico soprattutto sulle spalle degli europei. Così si spiega la dichiarazione del presidente francese Emmanuel Macron, che parla d'inviare soldati NATO in Ucraina per fornire a quest'ultima letteralmente un quarto esercito dopo i tre già formati finora e decimati sul campo, mossa che ha trovato il rifiuto degli alleati ma che serviva anche a sondare il terreno e probabilmente a dimostrare che, in concreto, nessuno in Europa ha seriamente l'intenzione di rischiare se stesso per Kiev, a cui già son stati devoluti fin troppi arsenali e capitali: forse a dimostrarlo anche agli stessi ucraini e, magari, pure ai russi? Anche perché le risposte fornite dai vari partner europei hanno dimostrato che in realtà, in Ucraina, la NATO c'è già, sebbene si trattasse di un “segreto di Pulcinella”: significativa in tal senso la risposta del cancelliere tedesco Olaf Scholz, del resto aggravata pure dalla sopraggiunta notizia dell'intercettazione a due alti ufficiali della Luftwaffe, Ingo Gerhartz e Frank Graefe, che discutevano di come recapitare decine di missili Taurus a Kiev per distruggere con una loro parte il Ponte di Kerch fornendole pure la relativa assistenza d'intelligence militare.
Tali elementi mettono maggiormente in luce anche una crescente conflittualità tra Parigi e Berlino, in un contesto di montante concorrenza tra i vari partner europei ed extraeuropei, che coinvolge anche Roma e Londra. Ognuno, malgrado le rassicurazioni d'ufficio fornite a Volodymyr Zelensky in occasione del G7 tenutosi proprio a Kiev, e in cui l'Italia ha quest'anno la presidenza di turno, sembra dunque intenzionato a condurre un proprio gioco, ben lontano dall'unità di facciata dimostrata nei consessi internazionali. Anche perché, come apparso proprio in occasione di quel vertice, c'è una grande posta in gioco economica, che va ad intrecciarsi proprio col grande business della ricostruzione: quello degli oltre 300 miliardi, solo nel caso europeo, di fondi russi congelati. L'Unione Europea e il G7 punterebbero ad appropriarsene per finanziarvi la ricostruzione, dando luogo ad un immenso volano economico a proprio vantaggio che però vede insieme al concorso d'interesse di tutti i vari partner anche la loro serrata competizione ad aggiudicarsene la quota principale di controllo e i relativi benefici. Non c'è da dubitare che tra partner-concorrenti europei su questa faccenda si sia aperta, già da tempi non sospetti, una lotta dove non si faranno prigionieri.