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I dazi americani scuotono le acque del Pacifico, ma l'Asia vuole stabilità

2025-04-09 22:00

Filippo Bovo

I dazi americani scuotono le acque del Pacifico, ma l'Asia vuole stabilità

L'ondata a più riprese di dazi annunciati da inizio aprile dall'Amministrazione Trump ha dato luogo a non poche ambiguità nei rapporti tra Stati Uniti

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L'ondata a più riprese di dazi annunciati da inizio aprile dall'Amministrazione Trump ha dato luogo a non poche ambiguità nei rapporti tra Stati Uniti e Taiwan. Taipei ha giudicato i dazi al 32%, che indubbiamente non s'aspettava, come “totalmente irragionevoli”, annunciando di voler intraprendere un maggior dialogo con Washington, sulla falsariga di molti altri suoi alleati, ugualmente rimasti poco entusiasti del trattamento ricevuto, ma al contempo anche un proprio “piano B”, non poi tanto dissimile da quanto avviato da molti altri paesi al mondo, asiatici in primis. Come visto in questi ultimi giorni, i dazi varati da Washington verso i propri partner asiatici sono stati tutti caratterizzati da percentuali piuttosto “punitive”, trovando soprattutto nella Cina e nei paesi dell'ASEAN i maggiori destinatari; ma anche altre economie, altrettanto ben integrate tra loro, col resto del pianeta e con gli Stati Uniti, come Giappone e Corea del Sud, hanno parimenti subito schiaffi davvero inaspettati. 

 

Sotto quest'aspetto la reazione da parte di Cina, Giappone e Corea del Sud è stata davvero delle più sorprendenti, soprattutto per chi era abituato ad equilibri politici ormai apparentemente piuttosto consolidati, che vedevano Tokyo e Seul tradizionalmente legate a Washington e pertanto tendenzialmente schierate contro Pechino se non su tutto quantomeno su molto, o su… abbastanza. A fine marzo le tre capitali hanno tenuto incontri dei loro ministri del Commercio per la prima volta da cinque anni a questa parte, rilasciando dichiarazioni congiunte in cui si sono impegnate unitamente a sostenere un commercio libero ed equo e a rafforzare i legami economici tra di loro. Tuttavia il loro ritrovarsi, dopo una parentesi temporale tanto ampia, non s'è sostanziata soltanto in solenni proclami, ma ha anche implicato l'avvio di una risposta coordinata ai nuovi dazi americani, da tutte e tre indicati come una minaccia al commercio globale e alle loro economie. Ne è una prova il rafforzamento dei negoziati per un accordo trilaterale di libero scambio (FTA), avviati sin dal 2012 e sin qui spesso ostacolati dalla forte ingerenza regionale americana, con ripetute e notevoli pressioni di Washington su Tokyo e Seul. Già queste tre novità rappresentano una forte scossa in un quadro regionale dove fino ad oggi l'egemonia americana aveva imposto tutt'altri equilibri; ma la “fuga in avanti” della nuova Amministrazione americana, se così può definirsi la sua odierna politica dei dazi, ha smosso le acque compromettendo proprio la tenuta di quegli stessi vecchi equilibri.

 

Tutto acquisisce ancor più spessore se guardiamo anche alla nuova cooperazione economica bilaterale tra Cina e Corea del Sud, volta a rafforzare i reciproci e già solidi legami commerciali e ad integrare le catene d'approvigionamento. I due paesi, a cui ora s'aggiunge ovvero torna ad aggiungersi anche il Giappone, puntano insomma a potenziare la loro cooperazione multilaterale, fisiologicamente già esistente da tempi non sospetti: basterebbe pensare a quanto sinora il loro sviluppo sia dipeso proprio dalla storica interazione che da sempre li lega, guardando soltanto agli ultimi decenni per non parlar di tutto il prima. Sconcertate dall'imprevedibilità politica americana, vista come inaffidabilità politica e sistemica, le potenze asiatiche solitamente più votate a strategie di lungo periodo preferiscono avvicinarsi tra loro e far fronte comune puntando sulle loro forti affinità. Anche questo spiega perché, ad esempio, i tre paesi si trovino concordi nel chiedere una riforma che restituisca slancio al WTO, vedendo nel commercio comune uno dei pilastri del multilateralismo; adottare nuovi dispositivi ad hoc potrebbe certamente servire a rendere l'Organizzazione Mondiale del Commercio in grado di competere con più efficacia con le nuove sfide economiche e commerciali globali.

 

Non si tratta, in ogni caso, di un avvicinamento esclusivamente basato su criteri economici e commerciali: i risvolti geopolitici sono dietro l'angolo e non dovrebbero mai restare sottaciuti davanti ad iniziative che coinvolgono mondi economici di tale calibro. La strategia di Cina, Giappone e Corea del Sud indica infatti anche la volontà d'affermare una maggiore autonomia strategica, al contempo preservando pure la stabilità regionale già oggi seriamente minacciata proprio da quella presenza “ingerente” d'attori esterni come in primo luogo proprio gli Stati Uniti, primi responsabili dei loro mancati o rallentati tentativi d'avvicinamento del passato, dei nuovi dazi di portata globale e, infine, delle tensioni che tuttora sconvolgono le acque del Mar Cinese Meridionale. Sebbene i punti di vista su quest'ultimo aspetto siano ad oggi ancora in buona parte differenti, l'intesa attuale fornisce un primo e robusto terreno comune su cui trovare maggiori affinità anche a suo riguardo: abbiamo scritto delle forti agitazioni di Taiwan per i nuovi dazi al 32%, ma al contempo l'Isola, assai ben integrata sotto il profilo economico con la Madrepatria cinese e col commercio globale, e così pure con Tokyo e Seul, si trova oggi anche al centro di rinnovate tensioni regionali ed internazionali. 

 

Nelle ultime settimane gli Stati Uniti hanno rafforzato la loro presenza militare nel Mar Cinese Meridionale, che hanno indicato la volontà di Washington di voler continuare a mantenere il proprio status nello Stretto. Sebbene gli Stati Uniti, insieme agli altri paesi occidentali e a tutti i loro alleati, riconoscano l'Isola di Taipei come parte integrante di una “sola Cina” con capitale Pechino, il loro comportamento all'atto pratico è ancora quello di quando continuavano a disconoscere la Repubblica Popolare riconoscendo solo Taipei e pertanto opponendosi a qualunque tentativo di riconoscimento di Pechino e di riunificazione dell'intero territorio nazionale cinese. Tuttavia da quel 1971 in cui gli Stati Uniti e i loro alleati riconobbero come già molti altri avevano fatto Pechino quale unica Cina, con l'estromissione di Taipei dall'ONU, d'acqua sotto i ponti dovrebbe esserne passata un bel po' e niente più all'atto pratico dovrebbe impedire una riunificazione dell'Isola con la sua Madrepatria continentale. La cosa appare poi ancor più grottesca, ed antistorica, soprattutto considerando l'odierno status di grande potenza, non soltanto economica, di Pechino e la sua stessa integrazione con l'economia statunitense e mondiale in generale.

 

L'Isola, tanto integrata alla Madrepatria, è al tempo stesso non meno legata agli Stati Uniti, che continuano artificiosamente ad impedirne la riunificazione. La sua attuale leadership, nella persona del presidente Lai Ching-te, è fortemente indipendentista, e se nei Democratici americani aveva trovato dei forti sostenitori, coi Repubblicani oggi pensava di poter addirittura fare un salto di qualità. I trasferimenti e le vendite d'armamento americano al governo di Taipei, avvenute a varie riprese, hanno incontrato crescenti preoccupazioni a Pechino; in più, le autorità dell'Isola, pur consapevoli del forte legame dei loro ambienti economici e imprenditoriali con la Madrepatria e non soltanto col “protettore” americano, galvanizzati dal secondo hanno contribuito non poco ad aggravare la situazione con dichiarazioni giudicate oltremodo provocatorie dalla prima. Il progressivo aumento di tensione nello Stretto, segnato dalla forte presenza americana che va ad estendersi anche a tutto il Mar Cinese Meridionale nel suo complesso, ha visto già in passato non pochi attriti a cui anche di recente sono seguiti recise risposte da parte di Pechino. Dei forti esempi si possono individuare, ad esempio, nelle esercitazioni militari cinesi Strait Thunder 2025A che hanno simulato blocchi navali ed aerei sull'Isola, presentate da Pechino come un “severo avvertimento” a quanti fuori e dentro l'Isola mirino ad ostacolare la riunificazione. I commenti di Taipei e di Washington sono stati intuibilmente dei più arroventati, ma proprio a questo punto è subentrata per la prima la fredda ed inaspettata tegola dei dazi voluti dalla seconda.

 

Lo stesso è avvenuto, grossomodo, con un altro attore regionale storicamente molto legato a Washington come le Filippine. Con quest'ultime, in funzione anticinese, Washington ha annunciato un rafforzamento della propria cooperazione militare, con esercitazioni congiunte come Marine Exercise 2025 (MAREX 25) e Cope Thunder Philippines 2025, oltre allo schieramento di nuovi sistemi missilistici anti-nave come i NMESIS (Navy-Marine Expeditionary Ship Interdiction System), inizialmente annunciati soltanto per le prossime esercitazioni Balikatan 2025 ma a quanto pare destinati a restarvi anche per quelle successive, aggiungendosi così ai sistemi missilistici a medio raggio Thypon già precedentemente installati. La reazione di Pechino, fortemente allarmata da una condotta come quella americana che indubbiamente mira a fomentare un crescente clima d'instabilità, è stata di forte polemica tanto verso Washington quanto verso Manila. Le esercitazioni e la montante militarizzazione portate avanti dagli Stati Uniti nell'area costituiscono infatti una netta ingerenza sullo status del Mar Cinese Meridionale, riconosciuto a livello internazionale come soggetto alla sovranità cinese ma oggetto come Taiwan di costanti violazioni e provocazioni da parte di Washington. Inoltre, non sono neppure mancate false accuse di scontri da parte di navi cinesi verso navi filippine, tese ad aggravare ancor più il già non facile bilancio dei rapporti sino-filippini e soprattutto sino-americani. Anche la pregressa vendita di caccia F-16 alle Filippine, che almeno in linea teorica permetterebbe a Manila di sorvolare e colpire gli spazi marittimi e terrestri cinesi, costituisce un ulteriore elemento di seria preoccupazione. 

 

Tuttavia la scure americana ha colpito anche le Filippine, con dazi al 17% a cui il governo di Manila ha reagito con un più marcato 34%. Se tali dati possono sembrare ancora lontani da quelli che hanno riguardato altri paesi, soprattutto dell'area (la Cina, dopo il 34% che va ad accumularsi ai dazi preesistenti, e che di fatto sale al 54%, ha risposto col 67%, a cui nuovamente gli Stati Uniti hanno ribadito con un inedito 104%, ora addirittura 125%; il Vietnam al 46% risponde col 90%; il Giappone al 24% fa seguire il 46%, mentre la Corea del Sud al 25% replica col 50%; mentre Taiwan, di cui diffusamente in quest'articolo parliamo, al 32% subito reagisce al momento con un non indifferente 64%, e così via), il loro impatto sulla delicata economia filippina, tenendo conto anche degli effetti indiretti dovuti ai danni subiti dalle altre economie, può risultare proporzionalmente molto più grave. Nel 2024 il paese è cresciuto del 5,6%, un buon risultato ma al di sotto dell'obiettivo governativo, stimato tra il 6 e il 6,5%, ritenuto necessario per poter crescere sanando nel lungo periodo tutti quei deficit strutturali e socioeconomici ancora esistenti. I dazi americani possono dunque mettere a repentaglio la crescita e il futuro di Manila, che reagisce cominciando a guardarsi intorno proprio come hanno iniziato a fare molti altri attori regionali, a cominciare ad esempio proprio da Taiwan. Se quest'ultimo è, come dicevamo, fortemente integrato nell'economia mondiale e soprattutto con la sua Madrepatria continentale, non di meno si può dire pure per le Filippine che per il loro sviluppo molto devono al rapporto storico ed economico con Pechino, così come all'export verso i mercati regionali ed internazionali. 

 

In generale, già da tutti questi numeri e percentuali, e dall'interazione tra le varie economie che li riguardano, possiamo facilmente renderci conto di quanto i dazi suonino al pari del muoversi di un elefante in una cristalleria. Tutti si scoprono colpiti, e preoccupati, dalle inaudite misure americane e trovano nel procedere ad una maggiore cooperazione reciproca una prima e più logica risposta alla deglobalizzazione portata avanti da Washington; in queste acque, già agitate dalle tensioni regionali ed internazionali, ed ulteriormente scosse dalla notizia dei dazi, Pechino appare a tutti quanti un indispensabile e sicuro punto di riferimento. Ancora anni fa il Presidente Xi Jinping aveva definito l'economia cinese “un grande oceano, non un piccolo stagno”; quelle parole oggi risultano più attuali e promettenti che mai, non soltanto in senso economico ma anche politico. Attraversare il Rubicone, trovando un coraggio necessario alle nuove sfide globali, per molti grandi e medi attori asiatici appare oggi una conditio sine qua non per poter ritrovare in futuro necessarie certezza e stabilità.

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