In questi ultimi giorni s'è tenuto a Lima il Forum APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation), organismo transpacifico sorto nel 1989 e che riunisce gran parte delle economie presenti dalla costa asiatica a quella latinoamericana. Unendo, tra i vari partecipanti, colossi del calibro di Stati Uniti, Cina e Russia, oltre ad altre grandi e dinamiche nazioni come Giappone, Sud Corea, Vietnam, Indonesia, o ancora storici attori come Canada, Australia e Nuova Zelanda, o piccoli e strategici partner come Singapore o Hong Kong, per non parlar poi di Messico, Cile, Malesia o Thailandia, oltre a tanti altri ancora, non c'appare certo come un'entità tanto trascurabile: certamente non è qualcosa di così prossimo, geograficamente e culturalmente, a noi europei da indurci a parlarne, ma del resto l'attenzione del Vecchio Continente a tutto ciò che si trovi al di fuori dei propri perimetri (e, verrebbe da aggiungere, anche all'interno) tende oggigiorno sempre più ad assottigliarsi.
Comunque, dovrebbe invece attirare un po' di più la nostra attenzione giacché ormai il baricentro economico del nostro pianeta tende sempre più a gravitare proprio intorno all'area asiatica e pacifica, con un visibile declino manifestatosi d'anno in anno dell'asse euro-americano, transatlantico. A questa edizione, per di più, abbiamo potuto ancor più significativamente assistere ad un tale passaggio: gli Stati Uniti appaiono in questo momento in visibile affanno, contratti su se stessi anche politicamente, con una difficile transizione politica interna tra un'amministrazione a fine corsa e una ancora in divenire; socialmente sempre più polarizzati al proprio interno da un voto che non ha spento le polemiche, ma che addirittura le accrescerà; nonché sempre più politicamente discussi anche a livello internazionale, per una condotta politica ed economica che evidentemente non possono più permettersi; per contro, invece, i suoi eterni rivali come Cina e Russia appaiono in crescente salute e vantaggio strategico a livello internazionale.
Se la Russia non s'è presentata col proprio Presidente, preferendo un rappresentante diplomatico ed apparendo come un pur presente "convitato di pietro" col quale bisognerà in futuro inevitabilmente fare davvero i conti anche a Washington, anziché chiudersi in false propagande autoreferenziali, la Cina al contrario è apparsa col proprio Presidente Xi Jinping, che diversamente da Biden, a capo di un'amministrazione uscente ben poco stimata a livello globale, si può presentare come sempre più forte ed affidabile agli occhi di tutti i partner e i soggetti terzi. Se da lontano la Russia può vantare un'ormai decisiva e difficilmente negabile vittoria strategica in Ucraina e sul piano internazionale, la Cina può invece vantare una crescente espansione nella sua interazione economica e commerciale col resto del pianeta, compresi loro malgrado gli stessi Stati Uniti: certi ambienti americani od europei, soliti sempre rivendicare anche oggi un predominio dei propri paesi nelle dinamiche globali, possono a tal proposito dir pure tutto quel che vogliono, ma intanto la realtà parla chiaro; anche il rapporto economico e commerciale tra le loro economie e quella cinese è oggi ben maggiore che in passato, e difficilmente potrebbero tornare indietro senza accusare duri contraccolpi, ammesso poi che sia davvero possibile.
Vale, a maggior ragione, per i paesi coinvolti nell'APEC, e quindi non soltanto gli Stati Uniti dove negli anni il commercio con la Cina malgrado sanzioni, dazi e boicottaggi non ha fatto altro che crescere, pur con maggiori costi per gli acquirenti americani; ma a maggior ragione per tutti gli altri membri, a partire da tutti quelli precedentemente menzionati. Tant'è che in molta della crescita economica che essi hanno goduto negli ultimi anni c'è tanto proprio dell'interazione nel tempo sviluppata con Pechino: non soltanto i partner asiatici come Thailandia o Indonesia, o quelli oceanici come Australia e Nuova Zelanda, ma anche referenti piuttosto “critici” come ad esempio Taiwan, presente sottobanco all'APEC con un proprio delegato, la cui integrazione economica e tecnologica con la Cina, checché ne dicano i nazionalisti di Taipei e i loro sostenitori occidentali, promotori di un'improbabile e pericolosa indipendenza, di decennio in decennio altro non ha fatto che aumentare; o le Filippine, che pure Washington agitano contro Pechino nelle questioni relative al Mar Cinese Meridionale, e che invece devono molto proprio al vicino cinese per il loro odierno progresso economico.
Non parliamo poi dei partner latinoamericani dell'APEC, come ad esempio Messico, Perù e Cile, paesi di quella “Patria Grande” che secondo la vecchia e sempre più affannata Dottrina Monroe erano il “giardino di casa” degli Stati Uniti, in cui niente e nessuno poteva entrare senza divergere dall'interesse di Washington: ormai anche quel vecchio dominio è smagliato e scoordinato, e pur con inevitabili difficoltà i paesi centro e sudamericani possono oggi condurre politiche ben più autonome, in primo luogo proprio in termini di partnership economiche od infrastrutturali. Solo per fare un esempio, l'attuale Forum APEC svoltosi stavolta a Lima è stato l'occasione anche per inaugurare con la Presidente Dina Boularte la nuova ed ultima maxi-infrastruttura costruita dalla Cina in Perù, il porto di Chancay, frutto di un progetto del valore di 3,5 miliardi di dollari interamente finanziato da Pechino: si tratta, come descritto dal Presidente Xi Jinping, della “nascita di un nuovo passaggio terra-mare per una nuova era”, perché come possiamo facilmente intuire facente parte della più vasta iniziativa Belt and Road, che ne riunisce i paesi aderenti in una crescente rete di porti, aeroporti, ferrovie, canali e corridoi di terra e di mare volti a costituire un grande “sistema sanguigno” in grado di collegare e nutrire il mondo.
Parliamo proprio di quella Belt and Road Initiative, qui più comunemente nota come Nuova Via della Seta, che pur accolta al suo principio con non pochi scetticismi da molti ambienti occidentali oggi appare invece ben solida e concreta, tale da suscitarne da una parte le paure e dall'altra da arroccarli ancor più in autoreferenziali millanterie: le paure per l'affievolirsi del proprio vecchio vantaggio strategico sul pianeta, ormai sempre più relativizzato e declinante, e le autoreferenziali millanterie di chi, non accettando l'inevitabille cambiamento dei tempi, tende a chiudersi in narrazioni parallele e fittizie, capaci in un qualche modo di rassicurarlo. Ecco, questa è l'immagine che l'Occidente tende sempre più a dare di fronte ad un mondo che sempre più s'unisce e s'aggrega riducendone il vecchio predominio politico ma al tempo stesso coinvolgendolo pure, volente o nolente, nelle sue nuove e più estese dinamiche economiche.
In questo senso, la nuova Amministrazione americana appare come una “prevedibile incognita” che, se dovesse far nuovamente rivivere i vecchi approcci anticinesi che la connotarono nel 2016-2020 all'interno degli equilibri odierni, nel frattempo molto mutati da allora, rischierebbe paradossalmente d'accentuare ancor più la riduzione della propria influenza nel mondo, trascinando con sé in quella condotta autolesionista anche il resto dell'Occidente; a partire, magari, dall'Unione Europea a sua volta già adesso non proprio in buona salute. Di fronte dunque ad una Belt and Road oggi tema sempre più centrale non soltanto nei rapporti tra Asia, Pacifico ed Americhe, ma anche tra Asia ed Europa, guardare ai tempi nuovi con un occhio più realista e un approccio più costruttivo non può che apparire consigliabile ai gruppi dirigenti occidentali, americani ed europei che siano: anche perché quei “tempi nuovi", quella “nuova era”, sono già oggi i “tempi odierni".