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Il dilemma europeo. Credersi grandi per non ammettersi piccoli: il conflitto in Medio Oriente

2024-09-21 19:00

Filippo Bovo

Il dilemma europeo. Credersi grandi per non ammettersi piccoli: il conflitto in Medio Oriente

Un ulteriore elemento a confortare l'ipotesi che l'Unione Europea punti soprattutto con mirabolanti prese di posizione e propagandistiche fughe in ava

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Un ulteriore elemento a confortare l'ipotesi che l'Unione Europea punti soprattutto con mirabolanti prese di posizione e propagandistiche fughe in avanti a coprire i suoi tanti insuccessi nel frattempo rimediati a causa dei deficit di sovranità e di coesione interna, è l'altrettanto recente votazione con cui il Parlamento Europeo sempre in questi giorni ha chiesto il riconoscimento di Edmundo Gonzalez a Presidente del Venezuela e l'arresto del suo Presidente Nicolas Maduro, la cui elezione è stata già da settimane riconosciuta come legittima dalla Corte Suprema venezuelana. In sostanza, oltre ad ingerire nella politica interna del Venezuela spianando la strada a nuove sanzioni in aggiunta a quelle già esistenti, l'Unione Europea vorrebbe anche far ricorso alla giustizia internazionale, alla CPI, affinché emetta un mandato d'arresto internazionale per il Presidente Maduro. Tuttavia, com'è noto, la stessa CPI che per molto tempo era stata un affidabile “giocattolo” in mano all'Occidente, sia per i paesi dell'Unione Europea che ne fanno parte sia per gli USA che invece non ne sono partecipi ma che tramite i loro alleati europei la dirigono dall'esterno, oggi non può più efficacemente operare senza trovare davvero un pieno consenso internazionale. Chi a questo punto avrà voglia di rinfrescarsi un po' la memoria circa le differenze di ruolo tra la CPI (Corte Penale Internazionale) e la CIG (Corte Internazionale di Giustizia, quest'ultima afferente all'ONU) potrà far ricorso ad un vecchio articolo che già pubblicammo qui qualche tempo fa. 

 

Senza un pieno consenso internazionale, ovvero della maggioranza dei paesi al mondo, nessun organismo può oggi realmente funzionare, di là dalla sua natura internazionale, intergovernativa o regionale; e non è certo un mistero che oggi come oggi la maggior parte delle nazioni che siedono all'ONU non veda di buon occhio le posizioni che l'Occidente ha adottato in merito ai conflitti in Ucraina e in Medio Oriente. Così il clamoroso mandato d'arresto a carico di Vladimir Putin emesso dalla CPI è naufragato nel nulla in occasione della sua recente visita in Mongolia, paese che della CPI è parte e che ne riconosce il diritto ad operare nel suo territorio. Al contempo, invece, costretta dalla CIG, la CPI ha dovuto procedere con un mandato d'arresto a carico del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, sia pur guarda caso procedendo comunque con maggior lentezza rispetto al rapido zelo che manifestò in occasione dell'incriminazione del Presidente russo. Intuibilmente le pressioni che la CPI riceveva erano ferocemente contrapposte, perché a quelle dei paesi del “Sud del Mondo” maggioritari all'ONU e prevalentemente schierati a sostegno della causa palestinese s'opponevano quelle dei paesi occidentali, USA, UE ed UK in primis, che al contrario sostengono Israele. Ciò può spiegare le più lunghe tempistiche della CPI e la sua scelta, molto dibattuta internazionalmente, di chiedere l'arresto non soltanto per Netanyahu ma anche per i capi di Hamas. Alcuni Stati europei, che riconoscono la CPI, hanno garantito che qualora Netanyahu giungesse nel loro territorio verrebbe arrestato, ma considerando le contemporanee legislazioni che sono “indotti” ad assumere dalle dinamiche del conflitto in Medio Oriente, viene da pensare che sia una tesi piuttosto remota od improbabile. Quel che è certo è che nel frattempo Netanyahu e i suoi non si muovano più di tanto da casa propria, limitandosi tutt'al più a qualche periodica visita negli USA, principale e storico alleato da cui tuttavia il governo israeliano al momento non può attendersi più che sostanziosi aiuti finanziari e militari: le elezioni incombono e nessuno, per il momento, a Washington ha voglia di calare gli scarponi nell'area più di quanto non vi siano già stati calati.

 

D'altro canto, tenersi lontani dai fatti mediorientali per gli europei pare un vero e proprio imperativo in questo momento: hanno già su di sé il gravoso compito di sostenere in buona parte il conflitto in Ucraina, che gli USA sempre perché impegnati con le proprie elezioni gli hanno affidato in termini di rischi ma non di guadagni e men che meno di scelte strategiche nel suo svolgimento: non a caso, come raccontavamo nel precedente articolo, i fatti di Toropets sembrano una buona ripetizione di quelli del North Stream, un'azione concordata tra settori militari di Washington e alcuni Stati baltici oltre agli stessi ucraini, se non all'insaputa degli altri paesi dell'UE quantomeno sapendo che comunque nient'altro avrebbero potuto dire o fare. Il conflitto mediorientale, che vede l'UE già di per sé fin troppo tirata nel mezzo, non è dunque al momento un argomento da masticare più di tanto in quel di Bruxelles e dintorni, tanto che tutte le scuse sembrano buone per evitarlo. Il caso dei cercapersone e dei walkie-talkie esplosi in Libano ha tirato implicitamente in ballo altri coinvolgimenti internazionali tutto sommato facilmente sospettabili che passano anche per il territorio europeo. I cercapersone sono esplosi nelle mani non soltanto di quadri e miliziani di Hezbollah ma soprattutto di civili, con un bilancio d'almeno 12 morti e tremila feriti, intorno alle 15.30 dello scorso 17 settembre, mentre i walkie talkie sono esplosi il giorno successivo, intorno alle 17.00, con un bilancio di venti morti e 450 feriti. S'è trattato indubbiamente di un grave attentato terroristico che tuttavia molti, non soltanto in Israele ma anche in Occidente, hanno preferito salutare come un'audace impresa d'intelligence. 

 

I cercapersone erano teoricamente prodotti a Taiwan dalla Gold Apollo, che tuttavia ha ben presto voluto respingere suoi eventuali coinvolgimenti: la produzione avveniva sempre su licenza presso l'ungherese BAC Consulting, e non erano dunque mai partiti dall'Isola di Taipei. La BAC tuttavia risulta una semplice società intermediaria, con una sola dipendente che ovviamente a sua volta respinge ogni accusa ma che indubbiamente non può esser sufficiente ad assemblare da sola un tale numero di dispositivi. Non di meno si può dire per i walkie talkie esplosi il 18 settembre, teoricamente prodotti dalla giapponese Icom con sede ad Osaka, che ha ugualmente respinto ogni complicità con gli attentatori. Quello specifico modello di walkie talkie, secondo i giapponesi, sarebbe stato prodotto tra il 2004 e il 2014 venendo a quel tempo distribuito dalla loro società anche in Medio Oriente, ma l'assistenza e la fornitura dei ricambi sarebbero cessati una volta uscito di produzione. Tuttavia, dopo il 2014, numerose società avrebbero iniziato a produrne dei cloni violando i diritti industriali e commerciali, fatto più volte denunciato dalla stessa Icom. In un mercato di dispositivi semplici e datati nella tecnica, e in gran parte replicati o contraffatti, non è difficile agire per nessuna “società ombra” o “civetta” che del resto, disponendo dietro di sé di potenti fondi ed apparati d'intelligence, potrebbe a quel punto clonare o alterare anche dispositivi ben più sofisticati. Intuibilmente le varie BAC o “finte BAC” o “finte Icom” che ne imitano i reali prodotti, nel caso degli attentati in Libano sono quindi “nomi civetta” dell'intelligence israeliano che all'occorrenza, per meglio confondere le tracce, ricorre anche ad assemblare quei prodotti in fabbriche situate in paesi terzi. Un esempio celebre fu quello della società gestita dalla CIA che in Egitto, negli Anni ‘70 e ’80, realizzava perfette copie dei Kalashnikov da destinare ai Mujahedin afghani finanziati per contrastare l'Armata Rossa entrata nel paese: intuibilmente passar loro armi di produzione americana, col rischio che venissero rinvenute dagli avversari, non sarebbe stata per Washington una scelta molto “igienica”.

 

Di là da queste ricostruzioni, l'azione terroristica israeliana sembra concepita a prepare il terreno ad un più massiccio coinvolgimento delle forze militari di Israele contro il Libano. Come riportato da più fonti, Hezbollah pur avendo in parte accusato il colpo con danni ad alcuni dei suoi membri, non è rimasta comunque limitata nella sua capacità sia offensiva che difensiva; mentre al contempo vede affluire al suo fianco nuovi combattenti anche dall'Iraq e dallo Yemen, da cui sempre pochi giorni fa un missile balistico è partito riuscendo a colpire la centrale elettrica di Gezer, vicino Tel Aviv, dopo aver percorso oltre duemila chilometri. Tali elementi ci indicano che, esattamente come i colpi più volte lanciati da Israele e dai suoi alleati americani ed europei sullo Yemen non hanno inficiato le capacità militari degli Houthi, così anche nel caso di Hezbollah i danni che le sono stati nel tempo inferti non sono stati da causarle palpabili effetti. Israele in questi giorni ha lanciati vari attacchi aerei contro obiettivi libanesi, in parte per coprire gli insediamenti dei suoi coloni nel settentrione palestinese, nelle fattorie Sheeba libanesi e nelle alture del Golan siriano, tutti territori sotto sua occupazione. Nel mentre, tuttavia, ha ricevuto da Hezbollah attacchi che le autorità locali hanno giudicato come “mai visti prima”. 

 

Sostanzialmente Israele vorrebbe cacciare Hezbollah ancora più indietro, ma per far ciò non può facilmente ricorrere alle divisioni meccanizzate perché andrebbe a scontrarsi con la geografia del luogo, caratterizzata da forti rilievi montuosi con scarsi punti di passaggio tranne forse un'area di circa cinque chilometri tra Metulla e il Monte Hermon. Tutta l'area montuosa circostante è imprendibile, men che meno per le forze meccanizzate, ed attraversata da tunnel e gallerie costruite negli anni dagli uomini di Hezbollah. Di fatto passare per quella sorta di corridoio, per quanto teoricamente anche largo ed attraversabile, significherebbe per le forze israeliane restarvi imbottigliate sotto il tiro di Hezbollah e degli alleati, con esiti certo poco consigliabili. Israele punta dunque nel frattempo a limare, con azioni più dal grande eco mediatico e dal grave bilancio umano che dal concreto risvolto militare, le capacità belliche dei suoi avversari mentre al contempo limita la sua azione soprattutto agli attacchi aerei e missilistici, che tuttavia ottengono come risultato risposte da Hezbollah sempre più forti e dure da incassare. Tutto questo, in attesa d'operare quel “rialzo della posta” nel conflitto col Libano e con Hezbollah che verosimilmente si potrebbe tradurre nel suo stesso suicidio; mentre gli europei, come dicevamo, paralizzati di fronte al rischio di ritrovarsi in una qualche misura compromessi in una simile prospettiva, preferiscono in tutt'altre faccende starsene affaccendati.

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