E' notizia di questi ultimi giorni l'incriminazione del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e del suo Ministro della Difesa Yoav Gallant, con relativa emissione dei mandati d'arresto internazionali, da parte della Corte Penale Internazionale (CPI) de L'Aja. Analoghi mandati d'arresto sono stati emessi dalla Corte anche contro i leader di Hamas Yahya Sinwar, Mohammed Diad Ibrahim Al-Masri e Ismail Haniyeh. Se contro quest'ultimi le accuse rivolte sono di generiche “responsabilità criminali”, nei confronti dei primi la Corte ravveda invece ancor più gravi responsabilità riguardanti “altri crimini contro l'umanità commessi sul territorio dello Stato di Palestina”. In sostanza, oltre alla differenza in termini di portata tra i crimini commessi dalle due parti, tra le righe del linguaggio diplomatico e giuridico si distingue anche tra Israele come “forza occupante” e Hamas come “forza resistente”, con tutte le relative conseguenze del caso.
Se entrambe le parti, ciascuna per proprio conto, s'è subito dichiarata offesa per l'accostamento con quella nemica, è comunque assodata la differenza di responsabilità, non più solo in termini di diritto internazionale ma anche penale, riguardo la loro diversa azione e posizione. Certo, ciò non è di per sé sufficiente ad interrompere un conflitto le cui parti, a diverso titolo, danno prova di non riconoscere né l'autorità della Corte né d'ancor più importanti organizzazioni internazionali, a partire dalla stessa ONU; ma può comunque favorire indirettamente il raggiungimento di un tale risultato, smuovendo altri importanti attori internazionali a prendere una più manifesta posizione. Mentre Israele e gli Stati Uniti minacciano di sanzioni e ritorsioni la Corte, diversi paesi europei dichiarano di non voler osteggiarne il lavoro accettando la validità del suo mandato sul loro territorio come ad esempio la Francia, la Germania e la Norvegia. Tra questi, alcuni si spingeranno anche oltre preparandosi a breve ad un pieno riconoscimento dello Stato palestinese, come la Norvegia, la Spagna e l'Irlanda, con altri ancora come la Francia, Malta e la Slovenia che analogamente valutano di sciogliere le loro ultime riserve.
Del resto, se per molti paesi europei il riconoscimento della Palestina continuava ancora ad essere un tabù, non così era stato per molti altri nel mondo che tale diritto al popolo palestinese e alle sue autorità rappresentative l'avevano riservato ancora in tempi non sospetti. Ad oggi sono infatti 143 sui 193 che siedono all'Assemblea Generale dell'ONU i paesi che nel mondo riconoscono lo Stato palestinese: praticamente una maggioranza “bulgara”. Nel 1988 i paesi che l'avevano riconosciuto erano 78; negli anni successivi, malgrado il ritiro del riconoscimento da parte di alcuni come la Repubblica Ceca, il loro numero aveva continuato a salire, ancor più dopo gli Accordi di Oslo e il loro complessivo fallimento dovuto all'assassinio dell'allora premier israeliano Yithzak Rabin e all'ascesa di figure come Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu, che aveva indotto i palestinesi a condurre nuove spinte diplomatiche in autonomia. Oltre a quelli arabi e musulmani, gran parte dei paesi africani, asiatici e latinoamericani riconoscono dunque lo Stato palestinese, con nazioni come la Russia, allora Unione Sovietica, e la Cina Popolare che si qualificano come tra i primi ad averlo fatto. Anche la Santa Sede, che non siede nell'Assemblea Generale ONU, è stata tra le prime a riconoscere la Palestina stabilendovi regolari rapporti diplomatici.
Va inoltre ricordato come alcuni paesi che ancora non hanno espresso il loro riconoscimento siano tuttavia favorevoli all'ingresso dello Stato palestinese all'ONU, avendo più volte votato in tal senso, ad esempio anche lo scorso 10 maggio dove appunto 143 sono stati i favorevoli, 9 i contrari e 25 gli astenuti. Quanti hanno votato a favore sostengono la soluzione a due Stati, dividendosi semmai sull'approccio da seguire per raggiungerla: è per esempio il caso dell'Austria, che storicamente gradirebbe un simile passo compiuto dall'intera UE e non solo da suoi singoli paesi membri. Altri paesi extraeuropei, più scettici circa la stabilità che la soluzione a due Stati potrebbe mantenere nel futuro, propongono altre soluzioni ancora, come quella a tre Stati nota anche come “soluzione Egiziano-Giordana”: tra questi, ad esempio, l'Eritrea. Va ad ogni modo ricordato come tali posizioni, espresse in certi casi oltre dieci anni fa, dinanzi ad un contesto storico e regionale già molto differente da quella odierno, abbiano conosciuto da allora importanti ammorbidimenti, denotati proprio dalle ultime votazioni in sede ONU.
La prosecuzione del processo di riconoscimento dello Stato palestinese può pertanto facilitare l'approdo a più solide vie negoziali tese a concludere l'attuale conflitto in Medio Oriente, costringendo anche quanti oggi minacciano la CPI a ridursi a più miti consigli. D'altronde, non è solo la CPI a perseguire i vertici israeliani, ma ancor prima la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) che diversamente dalla prima è organismo giuridico afferente all'ONU. E' infatti proprio alla CIG che il Sudafrica per primo s'è rivolto, denunciando Israele per genocidio e trovando la successiva adesione di numerosi altri Stati. Entrambe con sede a L'Aja, le due Corti hanno storie e competenze diverse: la CIG è nata nel 1945, come organo giuridico dell'ONU regolato dal suo stesso Statuto; la CPI, alternativamente nota anche come CCI (Corte Criminale Internazionale) invece è sorta nel 2002 a seguito dell'approvazione dello Statuto di Roma battezzato nella Conferenza omonima. La prima ha carattere permanente e valenza per tutti gli Stati che siedono all'ONU, la seconda ne è priva e tratta i crimini internazionali con una giurisdizione limitata ai soli Stati che ne garantiscono il riconoscimento. Questi ultimi sono al momento 124 su 193 presenti all'ONU, ma parte di loro non ha ratificato o completato tale riconoscimento o ne è uscita successivamente: Israele e gli Stati Uniti sono ad esempio tra questi.
Come già ricordato, la CIG può incaricare la CPI di procedere su reati criminali che esulano dalle proprie competenze dirette, e così possono farlo anche il Consiglio di Sicurezza ONU o singoli Stati, oltre al suo stesso Procuratore che può agire motu proprio avviando un procedimento; nel caso specifico di Israele e dell'attuale conflitto in atto in Palestina, dunque, siamo in presenza di diversi procedimenti che contemporaneamente avvengono sia presso la CIG che presso la CPI, in base alla diversa tipologia di crimini internazionali trattati. La sovrapposizione tra le due Corti che è stata fatta a livello mediatico, il più delle volte per una certa sciatteria, ha portato molti settori dell'opinione a non comprendere la differenza tra le due, alimentando negli ultimi tempi una gran confusione nei giudizi riguardanti il loro operato. Tuttavia, siamo ora in presenza di un tribunale internazionale a carattere permanente, la CIG, e di uno sovranazionale a carattere limitato, la CPI, che stanno procedendo su Israele per crimini di guerra, focalizzandosi su diversi reati individuati sul campo. Di conseguenza, se la situazione giuridica per i responsabili dell'odierno conflitto appare oggi ancor più critica, con tutte le pressioni che ne derivano per la loro governance ed immagine internazionale, non meno critica lo appare dal punto di vista del loro comportamento verso entrambe le Corti, che coi propri alleati mirano a minacciare e sanzionare.