Spesso e volentieri, dando credito all'informazione generalista, per sua natura meno addentro a certe specifiche questioni, si corre il rischio di prender lucciole per lanterne. Così è stato per molta opinione pubblica europea, rimasta certamente colpita dalle misure restrittive applicate dalla Commissione UE nei confronti delle auto elettriche prodotte in Cina: annunciate già nella scorsa primavera e rafforzate nello scorso mese, non hanno invece particolarmente impressionato gli esperti di settore, indubbiamente più preparati nell'ambito economico e commerciale o dell'automotive. Scattati lo scorso 5 luglio con una copertura provvisoria di quattro mesi, potrebbero venir rinnovati in via permanente a partire dal prossimo novembre qualora i colloqui con la controparte cinese per i vertici comunitari non risultassero soddisfacenti; in tal caso la loro durata non sarebbe inferiore ai cinque anni. Secondo le misure previste dalla nuova normativa europea, all'attuale imposta del 10% andrebbe ad aggiungersi su tutte le autovetture di fabbricazione cinese un ulteriore dazio variabile tra il 17,4 e il 37,6%, tale da elevarne nei casi più gravi il prezzo fino al 48,1%. Il pesante gravame doganale previsto dall'UE non andrebbe invece a colpire le autovetture più tradizionali, benzina, ibride e diesel, benché sempre prodotte in Cina, che non si vedrebbero pertanto influenzate nella loro diffusione sul mercato: dopotutto, i Costruttori cinesi sono presenti in Europa a vario titolo, sia con importatori che con collaborazioni con le Case locali, ormai da diversi anni.
Indubbiamente, da come erano stati annunciati dai più comuni giornali e telegiornali, sembrava che i dazi dovessero rendere proibitivo o addirittura impossibile la diffusione di auto di produzione cinese in tutto il mercato comunitario, limitandone una presenza ormai ben solida. Quel modo di fare e dare l'informazione, però, non teneva conto di numerose variabili, di una serie di aspetti tutt'altro che insignificanti o minoritari dinanzi ai quali quella così marcata narrativa iniziava improvvisamente a traballare. Ad esempio, che molti Costruttori automobilistici occidentali, siano essi europei od americani, producano molte delle loro auto elettriche destinate al mercato europeo proprio in Cina: conseguentemente, i dazi UE vanno a ricadere anche su di loro, e non è a quel punto tanto difficile immaginarsi quali siano le loro reazioni. L'americana Tesla, che produce a Shanghai la sua Model 3 per l'Europa, è stata tra le prime ad annunciare possibili rincari di listino. Non dobbiamo poi dimenticare neppure i tanti Marchi europei ormai divenuti dirette proprietà di gruppi cinesi, come l'inglese MG risorta nelle mani di SAIC, o ancora Volvo, Smart e Lotus da tempo in orbita di Geely; o ancora le Case automobilistiche europee che in Cina hanno trovato nel tempo partner importanti per consolidare le loro masse critiche e reperire nuove risorse finanziarie e tecnologiche, elementi essenziali in un'ottica globale, dove la competizione e i costi sono sempre più importanti e il ricorso a sempre maggiori concentrazioni ineludibile. Dacia, proprietà del Gruppo Renault-Nissan-Mitsubishi, produce in Cina la sua apprezzata Spring grazie alla partnership con DongFeng, e così fa BMW per la sua iX3, contando su Brilliance. Quanto alla già citata Tesla, la sua collaborazione con Xpeng è in espansione, cosa che del resto vale anche per tutti gli altri Costruttori occidentali europei con le loro rispettive controparti cinesi. Parte di questi Costruttori hanno annunciato rincari, altri hanno garantito che non saranno obbligati ad applicarli nell'immediato date le ampie scorte di autoveicoli già importati, e via dicendo.
Bisogna poi notare come in certi casi i Costruttori europei abbiano in Cina joint-ventures con più Costruttori locali, in base al genere di modelli sviluppati o ai mercati terzi dove congiuntamente rafforzare la propria presenza, e viceversa. Il Gruppo Volkswagen, per esempio, ha in Cina partnership tanto con SAIC quanto con FAW, solo per citare le più storiche, e questi Gruppi a loro volta ne hanno con altri Costruttori esteri ancora, come ad esempio Toyota o General Motors. Né potremmo dimenticarci che DongFeng, quarta in Cina per ordine di grandezza insieme proprio a FAW, SAIC e Chang'an, è presente come partner nei capitali dei Gruppi Renault e Stellantis, quest'ultima allora ancora PSA e non fusasi con FCA. Vi sono poi casi invero assai singolari, come quelli di piccoli Costruttori europei come l'italiana DR che potrebbero conoscere i rincari più alti in virtù della forte quantità di componenti di provenienza necessari al montaggio dei loro modelli, che pure avviene in Europa. La Casa molisana, com'è noto, nacque infatti nel 2006 accordandosi con la cinese Chery per montare in Italia alcuni suoi modelli, per poi allargarsi in seguito a collaborazioni anche con altri colossi cinesi come JAC, BAIC e DongFeng. Le normative previste dalla Commissione UE, infatti, stabiliscono che l'effettiva origine di un prodotto non dipenda dal luogo di costruzione, che in questo caso sarebbe Macchia d'Isernia, ma da dove risulti fabbricato almeno il 45% delle sue componenti. Anche per i veicoli commerciali, piccoli e medi, è intuibile che la situazione non sarebbe tanto diversa: pensiamo al Piaggio Porter Maxxi Elettrico, realizzato insieme a Foton, Gruppo BAIC.
Possiamo a questo punto immaginare che le pressioni dei Costruttori europei sulle autorità comunitarie non garantiranno una lunga vita ai dazi appena varati. Le trattative condotte dalle autorità europee con quelle cinesi in questi quattro mesi di dazi “provvisori” potrebbero infatti venir alquanto influenzate proprio dai malumori dei nostri ambienti industriali. Secondo AutomotiveNews, la Commissione Europea starebbe già mediando con colossi europei come Volskwagen e BMW per ridurre il peso fiscale sui loro modelli “full electric” prodotti in Cina, con un decremento dal 37,6 al 20,8%. Questo in virtù di un riconoscimento come “società cooperanti” che, tuttavia, non tarderebbe a venir reclamato anche dagli altri Costruttori europei, non fosse altro per una disparità di trattamento. BMW è da anni proprietaria e si potrebbe dire pure fondatrice del Marchio inglese Mini, una delle ultime memorie dell'ormai decaduto colosso British Leyland; mentre Volkswagen produce in Cina la Cavascan, modello elettrico della gamma Cupra, quest'ultima diramazione “élitaria” della spagnola SEAT fin dagli Anni '80 di sua proprietà. E' una risposta parziale, quella delle autorità comunitarie, che ne indicherebbe la volontà di un compromesso teso a salvare capra e cavoli, ma che avrebbe trovato risposta e gradimento da parte degli interessati; di certo, in questo modo Bruxelles ha pure manifestato le sue difficoltà a portare avanti una politica di chiusura con l'esterno, sempre più osteggiata dagli operatori economici ed industriali europei. Lo testimonia proprio la risposta dell'ACEA, l'Associazione dei Costruttori Automobilistici Europei, con una lettera alla Commissione UE in cui si reclama una politica ben diversa da quella adottata nei confronti del prodotto realizzato in Cina. In virtù proprio delle tante partnership che legano Costruttori europei e cinesi, in un mondo ormai sempre più globalizzato, sarebbe a loro giudizio preferibile che la Commissione demandasse al mercato il costruirsi di una sana concorrenza, nell'interesse dei consumatori e dello sviluppo tecnologico, ed adottando quindi una politica di aperture anziché di chiusure.
Non sorprende che sia grossomodo quanto chiedono anche le autorità cinesi, che sempre ricordano alle loro controparti occidentali il valore di una politica di tal genere: dopotutto, proprio con le aperture la Cina ha potuto garantire maggior prosperità al proprio popolo e formare un grande patrimonio tecnologico. La lettera dell'ACEA, che riporta la firma di 31 varie realtà dell'automotive, invita dunque la Commissione UE non soltanto a far marcia indietro nella sua politica di restrizioni, ma addirittura fornisce delle valide proposte come ad esempio quella di istituire un apposito Commissario europeo per il commercio e ad un maggior sostegno all'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), le cui regole è giusto far valere perché l'UE possa preservare ed elevare i propri standard economici e migliorare le condizioni dei propri cittadini e consumatori. Il documento emanato dall'ACEA è d'indubbia importanza anche perché, con ovvia e prevedibile competenza, spiega come certe misure restrittive andrebbero a colpire non soltanto le autovetture prodotte integralmente in Cina pur di Marchio europeo, ma anche quelle che ne riportano un quantitativo di componentistica che in misura più o meno variabile può risultare anche piuttosto importante: non solo la BMW iX3, insomma, ma anche la più popolare DR 1.0. E poi, proprio perché la “global chain value”, la catena globale del valore, è diramata in tutto il mondo, le maggiori difficoltà doganali applicate dall'UE per i produttori cinesi sia automobilistici che di componentistica andrebbero subito a riflettersi anche su altri loro fornitori al di fuori della Cina, o su fornitori terzi che analogamente si vedrebbero danneggiati dagli immediati rallentamenti produttivi che ne conseguirebbero, per via dell'ovvio ed implicito calo di forniture e di richieste.
Non diversamente ciò varrebbe in merito al cosiddetto “dumping”, ovvero il sostegno statale alle aziende esportatrici che porta nei mercati d'importazione a facili e prevedibili accuse di concorrenza sleale. Le misure antidumping adottate dall'UE, al pari di quelle varate negli USA ai quali si addebita l'influenza esercitata sui vertici comunitari per una loro analoga adozione, hanno trovato nel corso del tempo immediate contestazioni da parte delle autorità cinesi e dagli importatori europei, che le hanno spesso giudicate soprattutto come un pretesto dietro cui coprire provvedimenti di natura soprattutto ideologica. Al pari dei dazi alla dogana, hanno poi trovato controrisposte da parte cinese che hanno ulteriormente scontentato i Costruttori, come dicevamo già da tempo sempre più “imparentati” tra loro; così, nella guerra commerciale venutasi a creare per iniziativa europea, a risultarne danneggiati sono stati non soltanto gli interessi di produttori ed importatori, ma anche e soprattutto dei consumatori, a tacer poi del forte condizionamento che ciò va a procurare allo sviluppi tecnologico e qualitativo, fortemente dipendente proprio da una sana ed aperta concorrenza. Le scelte politiche ed ideologiche in generale non dovrebbero mai condizionare i provvedimenti sul mercato, soprattutto in casi come questi, anche perché come ampiamente risaputo la presenza dello Stato è avvertibile nei capitali di molte Case automobilistiche europee: si pensi ad esempio a Renault e Stellantis, con forti partecipazioni da parte di Parigi, o Volkswagen, che tramite una sofisticata struttura finanziaria presenta partecipazioni dirette ed indirette sia del land della Bassa Sassonia che del fondo sovrano del Qatar. In generale, proiettare simili accuse sugli altri, in questo caso la Cina, può come già avvenuto nel caso dell'elettronica facili ed incontestabili contromisure.
Un altro effetto ancora di certe politiche restrittive potrebbe poi essere quello d'incrementare la ricerca da parte dei Costruttori cinesi di siti produttivi in territorio comunitario o nei paesi limitrofi, dove l'UE ha politiche doganali più aperte e già operano molti Costruttori europei per la produzione di loro modelli, non soltanto di fascia economica. Stellantis opera ad esempio anche in Turchia e Serbia, come Renault in Marocco, e così via: nulla vieterebbe ai loro partner asiatici di valutare una produzione in tali siti produttivi, insieme alle produzioni già esistenti. Ma se è per questo nulla analogamente vieterebbe ai Costruttori cinesi di produrre anche nel territorio dell'UE, incontrando prevedibili consensi soprattutto in aree dove il peso della deindustrializzazione nel corso degli anni è andato sempre più facendosi sentire. Poiché è proprio in un'ottica sempre più globale che i Costruttori mondiali si trovano a ragionare, la progressiva esternalizzazione di molte produzioni nei mercati di destinazione sarà una caratteristica che non tarderà a coinvolgere le Case automobilistiche dei paesi emergenti, non soltanto cinesi ma ad esempio anche indiane, e via dicendo. Tale fenomeno, d'altronde, già in parte avviene nel mondo, e non di rado ha bagnato anche l'Europa; ma ciò che vedremo in futuro avrà volumi sempre maggiori. Dopotutto, anche le Case giapponesi, a lungo malviste in Europa, trovandosi soggette a vari e severi contingentamenti e blocchi commerciali, nel momento in cui acquisirono una massa industriale tale da collocarle tra le maggiori a livello mondiale, fecero altrettanto: erano gli Anni ‘70 e ’80, e da allora la loro affermazione sul mercato europeo è andata in crescendo.
I più giovani forse non potranno ricordarlo, ma fino a poco più di trent'anni fa le auto giapponesi entravano in Europa col contagocce, proprio in virtù dei forti dazi applicati dalle autorità europee d'allora; non diversamente avveniva con le moto, in particolare per quelle di cilindrata inferiore ai 350 cc. Alcuni paesi europei avevano provvedimenti molto restrittivi, come l'Italia, mentre altri tendevano a darsi politiche a maglie più larghe, ma nel complesso le limitazioni erano non poche e sempre piuttosto pesanti. Tutto cominciò a cambiare nel momento in cui quei Costruttori giapponesi, come in parte già detto, scelsero d'impiantare in Europa fabbriche dove realizzare quei modelli per i quali prevedevano una massiccia vendita nei nostri mercati: e così fu, con la Honda, la Toyota o la Suzuki che a vario titolo iniziarono a produrre chi in Francia, chi in Inghilterra, chi in Ungheria, nell'Est post “muro di Berlino”. Anni dopo furono i Costruttori sudcoreani a ripetere quel copione, e così via. In tal senso, la storia dovrebbe insegnarci che pensar di cambiare o condizionare il mercato e la competizione tecnologica con provvedimenti politici poco lungimiranti, come quelli tesi alla chiusura anziché all'apertura, non conduce mai ad esiti convincenti. Presto o tardi, anche l'UE lo capirà.