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Tra USA ed UE: da "L'uomo propone e Dio dispone" a "Se Atene piange, Sparta non ride"

2024-06-29 17:16

Filippo Bovo

Tra USA ed UE: da "L'uomo propone e Dio dispone" a "Se Atene piange, Sparta non ride"

In questi giorni sono state sciolte le ultime riserve circa i nomi della nuova Commissione UE, che va a presentarsi come una prosecuzione della vecchi

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In questi giorni sono state sciolte le ultime riserve circa i nomi della nuova Commissione UE, che va a presentarsi come una prosecuzione della vecchia secondo le nuove condizioni emerse dal recente voto europeo. Alcuni vecchi nomi sono stati riconfermati, nonostante fossero molto discussi e piuttosto impopolari, mentre altri di nuovi hanno ottenuto l'approvazione, sul filo di una continuità politica che si mantiene con un sempre più sensibile spostamento a destra. I nomi, vecchi o nuovi che fossero, non incontrano l'umore della maggioranza degli elettori europei, che con una bassa affluenza e il voto accordato a partiti spesso di rottura o all'opposizione dei rispettivi governi nazionali hanno inequivocabilmente espresso una forte volontà di cambiamento; ma proprio per questo, e proprio per salvaguardare gli immensi interessi che al contrario una continuità politica avrebbe preservato, la risposta di Bruxelles è stata quella che conosciamo. 

 

Sono tutti nomi che conosciamo, e che non coincidono certo con l'auspicato cambio di rotta dell'UE in termini di politica interna ed estera; già ventilati da una serie di fonti di calibro nei giorni passati, indicano per il futuro una politica ancor più divisiva all'interno ed ancor più aggressiva verso l'esterno, oltre ad una sempre più marcata satellizzazione di Bruxelles da parte di Washington. Innanzitutto Ursula Von Der Leyen si vede riconfermata al proprio incarico di vertice, mentre l'estone Kaja Kallas diventa Alto Rappresentante per la diplomazia europea al posto di un Josep Borrell che negli ultimi tempi sembrava aver pure affievolito la sua condotta un tempo più bellicosa, in particolare in merito all'odierna ed infuocata crisi in Medio Oriente. Diventa invece nuovo Presidente del Consiglio Europeo il portoghese Antonio Costa, esponente socialista già con un lungo trascorso a Bruxelles, più volte ministro per la giustizia e per gli interni presso lo stesso Consiglio, oltre che suo primo ministro, nonché vicepresidente del Parlamento Europeo in tempi più recenti. Acceso sostenitore dell'allargamento dell'UE a sempre più nuovi Stati, ha assistito con gaudio alla sua copiosa espansione ad Est nel 2004 ed oggi lavorerà affinché altre nuove adesioni siano velocizzate e garantite, cominciando da quelle di Ucraina e Moldavia, ma non solo. 

 

Tornando però a parlar di Kaja Kallas, in rapporto alle ultime prestazioni fornite dal suo predecessore Borrell, possiamo star certi che d'ora in avanti la linea diplomatica di Bruxelles sarà ancor più sorda e dura di prima: atlantista dura e pura, secondo la linea oggi politicamente dominante nei tre Stati baltici, è la prima esponente dei liberali a guadagnarsi la gestione della diplomazia europea. Figlia d'arte, giacché suo padre Siim fu Commissario ai Trasporti nella seconda Commissione Barroso, tra il 2014 e il 2018 come parlamentare europea oltre a far parte della Commissione Bilanci e Industria ha ricoperto pure la vicepresidenza in quella per l'associazione UE-Ucraina, sin da allora distinguendosi per un certo proprio zelo russofobico e non solo. Non a caso, dal 2022, il suo appello ad un sostegno totale ed incondizionato a Kiev è risaltato ancor di più, ponendola in prima fila tra quanti esigevano una piena rottura dei rapporti con Mosca ed un totale allineamento sulle posizioni di Washington e di Londra. Al pari dei neocon USA a cui del resto è legata, associa la propria russofobia ad un anticomunismo viscerale; ciò non deve tuttavia sorprendere nessuno, men che meno considerando il fatto che paradossalmente il padre avesse iniziato la propria importante carriera d'economista proprio in epoca sovietica. Per molti di questi esponenti politici dell'Europa orientale e dell'area baltica, dopotutto, si tratta pure di una sorta di necessità psicologica e politica che li induce a dover fornire continue "prove d'amore" della propria fedeltà atlantica, russofoba ed anticomunista, in virtù proprio delle loro origini storiche e familiari, vissute quasi alla stregua di un "peccato originale" continuamente da emendare.

 

Sue non a caso le scelte di rimuovere strada facendo il progetto del Nord Stream 2, in precedenza ritenuto strategico, di pressare i partner europei a fornire quante più armi possibile a Kiev e persino d'ipotizzare, tra i primi in Europa, l'impiego di truppe NATO sul suolo russo, cosa che visto il suo ruolo denuncia ancor più la partecipazione dell'UE nei piani dell'Alleanza Atlantica. Non sono mancate neppure un po' di questioni piuttosto imbarazzanti sul fronte giudiziario, proprio in merito ai rimborsi per il materiale militare fornito a Kiev, su cui come del resto anche altri nell'UE e nell'area NATO in questi casi hanno fatto delle lucrose “creste”. Nota anche per sostenere la linea della “decolonizzazione” russa, ovvero della frammentazione della Russia in una serie di piccoli etnostati con guide e confini da stabilire tra USA ed UE, sempre secondo i medesimi piani a suo tempo elaborati dai neocon americani, non sorprende che sia finita per prima nella lista nera di Mosca, per poi addirittura vedersi promuovere lo scorso 13 febbraio al rango di ricercata dalle autorità russe. Presentandosi a quel punto come nuova perseguitata della “autocrazia” russa, non ha esitato a quel punto a sfruttare la novità come forma di pubblicità e legittimazione politica, indubbiamente traendone dei cospicui risultati elettorali. Insomma, non solo per quanto riguarda il dossier ucraino ma anche quello israelo-palestinese c'è da star certi che per Washington e Gerusalemme la Kallas saprà esser ancor più gratificante del già passabile Borrell.

 

Quanto alla Von Der Leyen, di cui già molto si sa, certamente più che della Kallas, si possono confermare le critiche e le perplessità che già vennero espresse a suo tempo, allorché grazie ad uno sgambetto politico di Emmanuel Macron saltò la candidatura di Manfred Weber, nel 2019 candidato designato alla guida della Commissione UE dai vari partiti che componevano la maggioranza. Fin da subito sorsero dubbi sulla bontà della nomina della Von Der Leyen, a cui s'imputavano minor preparazione ed esperienza politica di altri, rafforzati dal non facile avvio della sua Commissione, a causa di un braccio di ferro prontamente sorto tra il Parlamento Europeo e i governi di Polonia e Romania, che avevano espresso candidati ritenuti irricevibili. Ai più la leader della Commissione è nota per il Green Deal Europeo, che impone a tutta l'Unione una transizione con tempi e prospettive che appaiono al contempo tanto irrealizzabili quanto draconiane; ma anche per la gestione non facile della crisi da Covid, che ha comportato provvedimenti spesso contestati da gran parte del pubblico europeo. Dal 2022, tuttavia, è soprattutto la guerra in Ucraina a coinvolgere principalmente il vertice comunitario, con un crescente appiattimento all'aggressività degli alleati esterni come Washington e Londra e dei più accesi membri interni come Berlino, Varsavia ed altri, che comporta una simmetrica e sempre più eccessiva compiacenza verso Kiev; ciò a discapito degli interessi europei e di molti Stati membri, che vedono pesare sulle spalle dei propri cittadini gli effetti delle sanzioni alla Russia e delle analoghe restrizioni a carico di molti paesi indicati come suoi partner o complici come in primo luogo la Cina. 

 

A tal proposito è da ricordare come l'appena riconfermata Von Der Leyen abbia emanato, dal 2022 fino ad oggi, ben quattordici pacchetti di sanzioni a Mosca; che, aggiungendosi a quelli verso Pechino per altre questioni analogamente care all'influente alleato d'oltreoceano, Washington, come le presunte violazioni dei diritti umani e religiosi nello Xinjiang, o i nuovi dazi per le autovetture elettriche, comportano gravi sacrifici per le imprese e i cittadini europei, già alle prese con una progressiva perdita del potere d'acquisto a causa del contesto attuale, ed ulteriori peggioramenti per la mutua fiducia e comprensione tra partner internazionali. Qualche maligno, infine, potrebbe ricordare come la Von Der Leyen abbia pure sbagliato con sinistra regolarità ogni sua previsione politica, in particolar modo in merito alla tenuta statale, economica e militare di Mosca nel conflitto in Ucraina: addirittura secondo le più ottimistiche previsioni avrebbe dovuto implodere nel giro di pochi mesi. Sebbene pure in ciò si trovi in buona compagnia, e non soltanto all'interno della vasta cerchia europea, si tratta comunque di un ulteriore elemento che pone delle serie ipoteche sulla credibilità e la capacità politica degli odierni vertici comunitari, a cui oggi sembra soprattutto chiesto di farsi sempre più finanziatori delle politiche aggressive di Washington ad Est in funzione antirussa e del pari di fedeli e generosi gregari nel suo scontro lungo l'ampia e non certo più facile frontiera dell'Indo-Pacifico, in funzione anticinese; al contempo facendosi interpreti di provvedimenti tesi sempre più a comprimere le condizioni sociali ed economiche interne, nonché politiche, e ad applicare il costante processo di “autoesclusione” dai rapporti col resto del Pianeta, secondo una linea di “deglobalizzazione” che mira a fare dell'Unione un satellite politico, economico e commerciale sempre più assoggettato agli USA e al loro vagheggiato piano di rilancio.

 

Questi tuttavia sono i piani, secondo la ben nota massima per cui “L'uomo propone e Dio dispone”; ma fin quanto possono ritenersi eseguibili? Guardando alla solidità dell'asse euroatlantico, ossia alla simbiosi tra USA ed UE, non poche sono le ombre che s'aggirano intorno al suo futuro. Il dibattito elettorale tra Biden e Trump dello scorso 27 giugno ha consegnato agli USA e al resto del mondo un duello tra due leader fortemente discutibili, ciascuno per proprio conto, entrambi fortemente in difficoltà per vicende delle più varie, e con alle spalle dei bilanci politici non proprio dei più convincenti. Per entrambi la linea da seguire è quella di un approccio bellicoso con gli avversari strategici, seppur dandosi diverse priorità: per Biden la prima è la Russia, per Trump invece è la Cina, senza dimenticare comunque il Medio Oriente in cui rivendica per gli USA un'impostazione ben più chiara ed aggressiva verso i rivali di Israele. In nessun caso, di là da quanto proclamato dal palco e nei rispettivi programmi elettorali, le diverse priorità porterebbero ad equilibri più costruttivi per gli equilibri mondiali, collocando gli USA in un sempre più conclamato ruolo di destabilizzatori delle dinamiche internazionali. Pesano infine i curricula giudiziari a carico del candidato Trump come del figlio del Presidente uscente, Hunter Biden, in quest'ultimo caso per delle “opacità” che vanno ad intrecciarsi con le difficili e contemporanee sorti di Kiev, e che denunciano le tanti compromissioni dell'entourage presidenziale nell'attuale conflitto. Ma pesano poi anche le non proprio presentabili condizioni di salute del Presidente uscente Biden, che nel dibattito con Trump è sembrato più volte in difficoltà, confondendosi e contraddicendosi, ed inanellando lapsus e refusi dei più vari. 

 

Per Trump ciò è equivalso in una facile vittoria nel confronto televisivo col rivale e, poiché i sondaggi già in precedenza lo premiavano di buon margine, pronto è stato l'appello di una parte dei democratici ad individuare un diverso candidato, che vada a sostituire l'anziano e visibilmente affaticato Biden: tra i nomi più vociferati, quello di Michelle Obama. Se una parte d'esponenti del mondo democratico USA chiede il cambio di cavallo in corsa, ad esempio tramite il New York Times, altri su Politico invece ne smentiscono la fattibilità, mentre pure lo stesso Biden dopo il confronto in TV si difende ammettendo sì almeno in parte certe sue lacune dovute all'età, ma al contempo assicurando d'esser ancora perfettamente in grado di ricoprire il proprio ruolo, che oltretutto gli elettori dovrebbero riconfermare per il bene del paese. Anche in questo caso, come in quello della forzata riconferma della Commissione UE e soprattutto delle sue figure più apicali, non serve molto intuito per rendersi conto che ciò che più preme è continuare a garantire il fluente processo d'accumulazione di risorse, arricchimento personali e di categorie, rilancio industriale e riarmo militare che accompagna la corsa dell'Occidente agli attuali conflitti internazionali. 

 

Non ci sarà da sorprendersi se gli ultimi mesi che ancora ci separano dalle Presidenziali americane ci riserveranno ulteriori sorprese, per non parlar poi di tutto quello che avverrà nel mentre, cominciando magari proprio dai dibattuti fronti russo-ucraino, mediorientale ed indo-pacifico. Davanti ad un Occidente euroatlantico che sembra sempre più avvitarsi nella spirale de “L'uomo propone e Dio dispone”, il resto del mondo può a buon diritto chiosare che tra USA ed UE “Se Atene piange, Sparta non ride”.

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