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Tra Occidente, BRICS+, incendi e sabotaggi: il Mar Rosso, ma non solo

2023-11-20 17:00

Filippo Bovo

Tra Occidente, BRICS+, incendi e sabotaggi: il Mar Rosso, ma non solo

Continua a salire la tensione nel Mar Rosso e nel Corno d'Africa, in una promiscuità di rivalità ed alleanze che già avevamo cercato di trattare nell'

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Continua a salire la tensione nel Mar Rosso e nel Corno d'Africa, in una promiscuità di rivalità ed alleanze che già avevamo cercato di trattare nell'articolo precedente, seppur senza riuscirne ancora a dare una piena resa e descrizione. 

 

In Etiopia il movimento FANO, che rappresenta una forte componente dell'etnia Amhara, sta mettendo a dura prova le autorità civili e militari, che a loro volta rispondono aumentando l'azione repressiva. Solo la ricerca di nuovi equilibri politici interni, tramite accordi con le varie componenti etniche etiopiche così da render loro un più pieno ed equo riconoscimento nelle strutture governative, permetterà ad Addis Abeba di superare l'attuale e grave impasse in cui al momento pare dibattersi. Ciò, intuibilmente, potrebbe pregiudicare anche la sopravvivenza dell'attuale governo guidato da Abiy Ahmed: questi, schiacciato tra gli Oromo di cui è esponente e gli Amhara su cui la pressione militare sta portando a crescenti accuse di genocidio, risponde al momento con continue fughe in avanti che tuttavia sembrano contribuire soprattutto a cacciarlo ancor più in un vicolo cieco insieme a tutto il paese. Sale il nervosismo dei Somali dell'Ogaden mentre i Tigrini del TPLF, con cui sotto pressioni americane Abiy Ahmed aveva recentemente seppellito l'ascia di guerra, non sembrano comunque ancora intenzionati a puntellarlo per garantirgli ora una maggior stabilità e sopravvivenza politica; e men che meno a supportarlo in un'eventuale nuova guerra con l'Eritrea per appropriarsi di uno sbocco sul Mar Rosso, ipotesi su cui al momento sempre più sembrano invece voler insistere. 

 

Approfittando di una simile situazione, che peraltro hanno in precedenza fortemente provveduto a coltivare, Stati Uniti, Israele, Francia ed Emirati Arabi Uniti guidano ora l'Etiopia contro il Sudan, alimentandovi la guerra civile presente già da prima della scorsa primavera, e contro i paesi del resto del Corno d'Africa e del Mar Rosso, Eritrea e Somalia in particolare. Il copione occidentale è sempre il solito, benché debitamente aggiornato: trasformare la geografia locale, soprattutto in termini d'alleanze geopolitiche ma anche territoriali, come se si trattasse di un grande ma pur semplice puzzle. Per conseguirlo, si persegue così soprattutto un "regime change" in Eritrea e lo smembramento della Somalia. Non sono un caso i cambi di rotta di Abiy Ahmed tesi a rompere le relazioni con l'Eritrea, così da accrescere la tensione con futuri auspici militari, o le sue trattative separate col Somaliland, stato non riconosciuto del settentrione somalo, per uno sbocco sul Mar Rosso, che mira a rompere l'unità della Somalia sin qui faticosamente raggiunta. Quest'ultima azione, pure, è un secondo affronto ad Asmara, oltre che allo stesso governo somalo, data l'alleanza tra i due governi e l'impegno che l'Eritrea ha profuso sia nell'aiutare la Somalia al recupero dell'unità che alla sua lotta interna contro il terrorismo di al-Shabaab, alimentato dagli Stati Uniti e dagli altri loro alleati tramite Gibuti. Gli stessi registi, insomma, alimentano la tensione nel Corno d'Africa e nel Mar Rosso, facendo leva sulle RSF in Sudan e su al-Shabaab in Somalia, usando come propri "ponti locali" rispettivamente Etiopia e Gibuti, che ricattano grazie ai loro numerosi condizionamenti interni e alle conseguenti ipoteche sulla loro sovranità nazionale. Dipendono infatti dei loro sussidi e scontano l'agire di loro quinte colonne, nella forma di movimenti etno-politici, umanitari, religiosi,  militari, ecc. Non a caso in Etiopia, mentre investitori e capitali fuggono e l'economia ancor più precipita, gli uffici dell'USAID vengono ora riaperti, con Washington a questo punto ben consapevole di poter recitare un potere negoziale sull'economia e sulle masse etiopiche ben maggiore rispetto al passato. 

 

A proposito del conflitto interno al Sudan, nell'ultimo articolo spiegavamo come Egitto ed Arabia Saudita sostenessero diplomaticamente e politicamente il governo di Khartoum, guidato da Abdel Fattah al-Burhan ed impegnato dalla rivolta delle RSF. L'Arabia Saudita è “nazione sorella” tanto dell'Egitto quanto del Sudan, importante sostenitrice finanziaria e sempre più rilevante alleato politico di entrambi. Le RSF che s'oppongono ad al-Burhan, pur avendo fatto parte della giunta al potere a Khartoum senza comunque riuscire ad ottenervi gli spazi che rivendicavano, al momento hanno invece un rapporto preferenziale soprattutto con gli Emirati Arabi Uniti. 

 

Tanto il governo di Khartoum quanto le RSF godono di un buon rapporto con la Russia, la cui esposizione nel quadro regionale è in costante crescita: ogni giorno Mosca cementa sempre più i propri rapporti con vari paesi della regione, e in generale tra Africa e Medio Oriente s'assiste oggi ad un forte e crescente revival dell'influenza russa. Vantando un buon rapporto tanto con l'Arabia Saudita quanto con gli Emirati Arabi Uniti, e non di meno anche con l'Egitto oltre che con lo stesso Sudan, la Russia potrebbe quindi giocare un importante ruolo diplomatico per contribuire a stemperare l'attuale tensione, soprattutto se consideriamo che tutti i paesi oggi direttamente od indirettamente coinvolti nella crisi sudanese vantano una vicinanza se non addirittura una riconosciuta presenza nei BRICS+. Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Etiopia ed Egitto sono infatti recentemente divenuti membri della grande famiglia dei BRICS, mentre il Sudan aveva presentato la sua candidatura ad entrarvi prima che il conflitto civile iniziasse a dilaniarlo all'interno. 

 

Il ruolo diplomatico che Mosca può recitare nella regione non è tanto dissimile da quello che vi può recitare Pechino, ma con una serie di sostanziali differenze. La Cina, infatti, è un paese che non ingerisce nelle politiche interne altrui evitando di sposarvi fazioni precise e/o di mandarvi propri "elementi" militari, a meno che non siano caschi blu nel quadro ONU: diversamente dal caso russo, non vi è ad esempio una “Wagner cinese” presente dalla Siria al Mali, ma vi sono invece investimenti per l'economia e per le infrastrutture dei paesi partner come quelli rappresentati dalla BRI (Belt and Road Initiative). Quella di Pechino non è e non vuole essere, anche per una connaturata mentalità politica cinese, una diplomazia fatta ponendo una pistola sul tavolo, men che meno sul tavolo di altri paesi. Tuttavia, insieme alla Russia, la Cina è l'altro “partner forte” nonché fondatore dei BRICS+ e all'interno di tale famiglia può svolgere un ruolo diplomatico non meno convincente sui nuovi arrivati, ovvero su Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Etiopia ed Egitto, coi quali oltretutto in molti casi vanta dei rapporti diplomatici, commerciali, energetici e tecnologici ben più ampi e consolidati rispetto a quelli russi, quest'ultimi sviluppatisi soprattutto negli ultimi anni.

 

E' tuttavia sempre bene ricordare come questi vantino anche un buon rapporto coi loro storici e vari partner occidentali, da cui ricevono oggi nuove e forti pressioni. Gli Stati Uniti ed Israele spingono molto sugli Emirati Arabi Uniti per una serie di partite molto importanti per i loro interessi, tutte abbastanza correlate tra loro, come la “Nuova Via del Cotone” o “Corridoio Indo-Arabo-Europeo” che dovrebbe far concorrenza alla BRI da anni avviata da Pechino o ancora il rinnovato conflitto israelo-palestinese scoppiato a Gaza. Se quest'ultimo rischia di mandare a monte o comunque di compromettere il progetto della “Nuova Via del Cotone”, al tempo stesso induce però Stati Uniti ed Israele ad accendere nuovi focolai di guerra anche nelle aree limitrofe, così da scaricare e distrarre parte della tensione che altrimenti andrebbe a caricarsi tutta su Gaza: ecco così il tentativo di fomentare la tensione nel Mar Rosso, non soltanto stuzzicando gli Houthi dello Yemen, o nel Corno d'Africa, non soltanto agendo sul già esistente conflitto in Sudan ma anche intervenendo sulle varie contrapposizioni interne alla Somalia o all'Etiopia, con l'auspicio di possibili ed ulteriori allargamenti. Dopotutto non è poi così difficile, manovrando le leve giuste: l'Etiopia, per esempio, è prima dipendente degli aiuti e sussidi occidentali in Africa e tra le massime al mondo. Il numero di voli di cargo militari dagli Emirati all'Etiopia con aiuti per le RSF sudanesi sono ormai una costante, come quelli a Gibuti per gli al-Shabaab somali. 

 

Si potrebbe quasi dire che Stati Uniti ed alleati abbiano individuato nell'Etiopia il “ventre molle" del Corno d'Africa, come nell'Argentina quello dell'America Latina, ossia i due nuovi "ventri molli" dei BRICS+, su cui agire per sabotarli dall'interno. Ma tale diagnosi, con tutto rispetto, era stata fatta anche dai paesi BRICS+ che ne hanno accettato le candidature, comprendendone la strategicità e pertanto l'indispensabilità ad averli il prima possibile in famiglia. Abiy Ahmed può apparire traballante, in balia di una linea politica oggi fortemente contraddittoria e destabilizzante per il suo paese e l'intera regione, e non di meno si può dire per il neoeletto Javier Milei, ma esistono pur sempre dei precedenti che, fatte le dovute mutazioni del caso, possono pure confortarci sul fatto che non tutto sia perduto. In Brasile l'estromissione di Dilma Roussef e in Sudafrica quella di Jacob Zuma si sono basate su veri e propri “golpe bianchi” che trovavano un preciso retroterra nelle volontà di sabotaggio occidentali e nella loro possibilità d'attingere alle risorse politiche ed istituzionali fornite loro da storiche quinte colonne interne; ma in nessuno dei due casi ciò ha portato alla demolizione dei rapporti che i due paesi avevano col resto della compagine. Cyrill Ramaphosa ha prevedibilmente garantito al Sudafrica una perfetta continuità politica, mentre Jair Bolsonaro pur imprimendo una forte e non auspicabile rottura alla linea politica del Brasile ben s'è guardato dal revocare i fruttuosi rapporti politici ed economici avviati dai suoi predecessori nel quadro regionale ed internazionale, a partire dall'appartenenza brasiliana ai BRICS+.

 

 

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