Dopo un lungo periodo d'instabilità, dovuti ad una faticosa e talvolta bellicosa coesistenza tra governi opposti in Etiopia ed Eritrea e ad una trentennale guerra civile in Somalia, a partire dal 2018 s'è cominciata a vedere la luce in fondo al tunnel. In Etiopia il vecchio partito di governo, il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (il TPLF, che era stato in sella per quasi trent'anni, dal 1991 al 2018, coprendosi di gravi responsabilità verso i propri cittadini e il resto della regione come testimoniato dalle pesanti repressioni delle proteste delle popolazioni Oromo ed Amhara nel 2015 e 2016, dalla guerra d'aggressione contro l'Eritrea tra il 1998 e il 2000 e dall'invasione della Somalia nel 2006) si ritrovò all'opposizione, e ciò pose le basi perché molti importanti dossier comuni ai tre paesi si potessero cominciare a sbloccare. Ben presto Etiopia ed Eritrea siglarono la pace chiudendo il lungo e doloroso capitolo di guerra iniziato nel 1998, trascinatosi fino ad allora con uno stato di “né guerra né pace” dovuto all'occupazione da parte delle forze etiopiche delle aree frontaliere eritree intorno a Badme e ad altre località in violazione agli Accordi di Algeri del 2000, che pure erano stati firmati da entrambi i governi; e ben presto i due paesi iniziarono addirittura a parlare di cooperazione ed assistenza reciproca, mentre anche per la vicina Somalia il diverso clima regionale cominciava a fornire dei benefici effetti per la sua ricomposizione statale e nazionale.
Tale situazione fu tuttavia turbata a partire dal novembre 2020 dalla rivolta del TPLF che, non accettando il nuovo corso politico e mirando alla secessione dello Stato del Tigray (situato nell'Etiopia settentrionale e al confine con l'Eritrea), tenne occupato a più riprese il governo federale etiopico con tenaci azioni militari che ebbero forti ripercussioni anche sui vicini, come ad esempio testimoniato proprio dai lanci di propri razzi oltre il confine eritreo fino a lambire la capitale Asmara. Il conflitto, conclusosi nel novembre 2022, vide il lavoro congiunto delle truppe etiopiche ed eritree, concludendosi con la resa e la smilitarizzazione del TPLF sottoscritta mediante un accordo vigilato dall'Unione Africana. A questo punto, sembravano finalmente porsi tutte le premesse per poter avviare quella maggiore integrazione del Corno d'Africa da lungo tempo auspicata; ma evidentemente mai bisogna vendere la pelle dell'orso prima d'averlo catturato.
Ne abbiamo avuto una prova proprio in questi giorni, con un'insolita dichiarazione da parte del primo ministro Abiy Ahmed che, in scarsa sintonia col buon clima politico che aveva stabilito coi propri partner regionali a partire dal 2018, ha avanzato delle richieste giudicate da tutti costoro come a dir poco pericolose ed esagerate. Sostenendo che il Mar Rosso e il Nilo siano "intimamente collegati all'Etiopia, fungendo da pilastri che possono provocarne lo sviluppo o il declino”, ha quindi ricordato che quando aveva “l'accesso al Mar Rosso (perso con l'Indipendenza dell'Eritrea nel 1993, NdR) era una grande potenza”, per poi concludere che per riottenere questo suo ”diritto" non si dovrebbe “giungere al prezzo del conflitto e dello spargimento di sangue”.
Pur sottolineando che non vi sia un espresso interesse verso i porti eritrei di Assab e di Massawa, ha comunque insistito che per ragioni geografiche e strutturali costituiscano gli obiettivi favoriti, magari da raggiungersi attraverso un acquisto, un leasing o qualsivoglia altro mutuo accordo. Il premier etiopico non intende, comprensibilmente, rovinare i propri rapporti con un vicino essenziale come l'Eritrea, che è stato un valido alleato nei peggiori momenti del quinquennio appena trascorso, almeno fino al punto da risvegliare certe dolorose e vicine memorie di guerra. Senza poi contare che tanto l'Etiopia quanto l'Eritrea vantino le medesime alleanze e collocazioni politiche internazionali, come testimoniato dalle forti partnership con paesi come Cina e Russia; e dunque non avrebbe certo molto senso per Addis Abeba andare a dar fastidio ad un paese suo confinante e peraltro da molto più tempo e con più solidità alleato dei suoi stessi alleati. A che pro una rissa in famiglia? Tuttavia Abiy Ahmed, pur proponendo partecipazioni in importanti progetti come la GERD (Great Ethiopian Renaissance Dam), Ethiopian Airlines ed Ethiotelecom, ha anche detto che “se non troviamo un alternativa attraverso il dialogo… potrebbe essere pericoloso”. A tal proposito, dandosi la responsabilità di mantener calme le acque ed invitando anche gli altri attori regionali a seguire il suo esempio, affinché non s'alimentino inutili tensioni regionali, Asmara ha ribadito con un proprio laconico e risoluto comunicato l'inviolabilità della propria sovranità ed integrità territoriale.
Altre lamentele, d'altronde, le ha avute pure per la vicina Gibuti, con la quale negli ultimi anni era stata sviluppata la grande ferrovia Gibuti-Addis Abeba sostenuta nel quadro degli investimenti promossi dalla Cina per la BRI (Belt and Road Initiative). Ultimamente i due paesi hanno dato il battesimo anche ad un oleodotto, del quale però Abiy Ahmed s'è lamentato visto che il costo costruttivo è ricaduto esclusivamente sulle casse etiopiche, senza che Gibuti in cambio gli fornisse un controvalore nella forma magari di un più agevole accesso al mare. Per giunta, Gibuti s'affaccerebbe proprio sullo strategico Stretto di Bab al Mandab, punto di collegamento tra Mar Rosso e Golfo di Aden; ma anche la più piccola delle repubbliche del Corno d'Africa ha preferito liquidare le richieste etiopiche respingendole al mittente. Non diversamente, del resto, poteva essere per la Somalia, ancora alle prese col pieno riconsolidamento delle sue istituzioni e della sua unità statale; nella necessità di riaffermare su tutto il suo territorio la propria sovranità, ben difficilmente potrebbe gradire qualsiasi mossa che potrebbe rappresentarne una sia pur modesta cessione o limitazione: ugualmente interpellata dal governo di Addis Abeba, non ha quindi tardato a dire di no.
Intuibilmente, le dichiarazioni di Abiy Ahmed hanno suscitato grosse polemiche anche in Etiopia. Non soltanto grande ne è stato l'eco nei social, in particolari tra cittadini etiopici ed eritrei, ma anche l'effetto sugli analisti politici regionali che le hanno giudicate improprie, se non proprio sconsiderate ed irresponsabili. Fortunatamente, non sembrano aver avuto per il momento altre e peggiori conseguenze, anche se sono state fatte prima che il premier etiopico partisse per il Belt and Road Forum di Pechino del 17 e 18 ottobre: prima di un simile evento, che avrebbe visto la Cina e l'Etiopia dar vita ad un “Partenariato Strategico e Globale a tutti i livelli”, poteva indubbiamente costituire un serio “passo falso” diplomatico, visto che andava a turbare gli equilibri politici nel Corno d'Africa e ad urtare altri importanti paesi alleati o partner di Pechino come Gibuti e l'Eritrea. Oppure, poteva venir visto come una “mossa su commissione di Pechino”, ed in effetti così in Occidente qualcuno ha voluto prontamente vederla, vale a dire rovesciando completamente ogni lettura geopolitica: giacché proprio alla Cina più che mai conviene che si preservi la stabilità e s'implementi la cooperazione nel Corno d'Africa al cui raggiungimento tanto ha lavorato, ma il cui sovvertimento chiaramente troverebbe il plauso di ben altri, a cominciare da ben precisi gruppi d'interesse occidentali. Peraltro insinuare senza prove che la Cina mandi avanti l'Etiopia nel rivendicar territori dall'Eritrea, da Gibuti o dalla Somalia significherebbe dar manforte alla vulgata, tanto diffusa dai media occidentali, secondo cui Pechino calpesti la sovranità ed il diritto internazionale degli altri Stati, avvalorando così l'idea che tanto valga renderle pan per focaccia riconoscendo magari l'indipendenza di Taiwan o chissà cos'altro ancora.
Nessuno d'altronde può mettere in discussione la sovranità e l'integrità territoriale altrui, e ciò vale anche per tanti altri Stati, africani in primo luogo: difficilmente potremmo immaginarci un'Unione Africana disposta ad assecondare la frammentazione di vari suoi paesi membri, per ovvie ragioni. Tuttavia, lanciando questo suo appello proprio prima di partire per il Belt and Road Forum, Abiy Ahmed ha rischiato di fare un prezioso “regalo” ad americani ed europei. Possono esserci delle chiavi di lettura: l'Etiopia è ad esempio fortemente condizionata dalle sue tante quinte colonne interne, come partiti e movimenti su basi etniche pro o contro il governo, o ancora i sussidi e gli aiuti economici dall'Occidente da cui ancora molto dipende. Tutto ciò rende il paese intuibilmente molto influenzabile e persino ricattabile: il premier etiopico doveva dunque “fare un assist” ad americani ed europei, una sorta di gesto di rassicurazione, a maggior ragione ora che il suo governo sempre più cerca un forte rapporto con la Cina per controbilanciare giustamente la loro influenza. Come dicevamo, non ha alcun senso che due seri alleati di Pechino come Etiopia ed Eritrea, entrambi inseriti nella BRI e legati alla Cina con Partenariati Strategici e Globali, si ritrovino ora in contrasto per questioni ormai antiquate ed associate a fin troppo dolorose memorie. Sono questioni che entrambi, come il loro grande alleato cinese, hanno dimostrato che si possono risolvere con gli strumenti della pace, del dialogo e della cooperazione; e che solo quanti gradirebbero vedere il caos nella regione del Corno d'Africa e nella rete d'alleanze di Pechino vorrebbero veder rispolverate.