Gli ultimi giorni hanno visto alcuni importanti aggiornamenti dai fronti mediorientale ed internazionale, come il mandato d'arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale a carico del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e del suo ex ministro della Difesa Yoav Gallant, ed il raggiungimento del “cessate il fuoco” tra Israele ed Hezbollah che oltre al Libano potrebbe dare anche a Gaza una maggiore tranquillità. Tuttavia, non sempre teoria e pratica si trovano a concordare; e, per quanto importanti, non necessariamente i due avvenimenti potrebbero portare al Medio Oriente quella decisiva svolta che da tempo s'attende.
La notizia del mandato d'arresto per Netanyahu e Gallant ha trovato nel mondo risposte piuttosto contrastanti, da quelle piuttosto soddisfatte e talvolta entusiaste di gran parte del Sud Globale a quelle ben più fredde ed imbarazzate dei paesi occidentali, tradizionali alleati di Israele e seppur indirettamente suoi partner anche nell'attuale conflitto. La tendenza generale, da parte occidentale, è stata quella di “spegnere i fuochi”, “tacitare lo scandalo”, in modo da minimizzare gli effetti politici e mediatici di una tale notizia. Alcune cancellerie europee hanno dichiarato che obtorto collo arresterebbero Netanyahu nel seppur remoto caso in cui si trovasse sul loro territorio, mentre altre al contrario lo considererebbero sempre come un amico a cui non torcere un capello; sulla stessa linea anche gli Stati Uniti, la cui futura Amministrazione si presenta intuibilmente ancor più vicina al governo israeliano di quanto già non lo fosse quella democratica. Solo alcuni governi europei, con un coraggio verbale che è pur sempre anche un segnale politico, hanno dichiarato che metterebbero agli arresti Netanyahu e gli altri ricercati dalla CPI; ma difficilmente costoro valuteranno mai, per il momento, di recarvisi. La Commissione Europea, col suo vicepresidente e commissario agli Esteri Josep Borrell, pur manifestando insoddisfazione per la riluttanza manifestata da molti governi del Vecchio Continente, difficilmente potrebbe fare qualcosa di più, considerando pure l'ostilità di molta parte del mondo comunitario sparso tra Strasburgo e Bruxelles all'idea di trattare Netanyahu alla stregua di un ricercato.
Anche riguardo le tempistiche richieste perché i procedimenti a carico di Netanyahu e dell'IDF andassero in porto, alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) e alla Corte Penale Internazionale (CPI) molte sarebbero le cose da dire: per incriminare il Presidente russo Vladimir Putin per crimini di guerra relativi all'intervento militare in Ucraina iniziato nel febbraio 2022, per esempio, non è stato certo necessario attendere così a lungo e le forzature in termini di prove ed argomentazioni false erano disseminate letteralmente ad ogni passo. E' una prova di quanto allora come stavolta enormi fossero gli interessi in gioco, che secondo una certa e nota logica dei “doppi standard” ha fatto sì che per i medesimi interessi dell'Occidente ad ogni costo Putin dovesse essere condannato e Netanyahu invece salvato. Ma al tempo stesso, proprio perché la prima incriminazione convinse ben pochi fuori dall'Occidente, nulla ha impedito che al momento opportuno Putin con la massima tranquillità potesse recarsi in un paese che ha sottoscritto e riconosciuto la CPI come la Mongolia, senza che nessuno trovasse niente da ridire e al contrario venendo persino accolto con grandi onori; e non diversamente, del resto, avrebbe già potuto essere qualche mese prima, in occasione del Summit BRICS in Sudafrica, dove preferì poi farsi rappresentare dal ministro degli Esteri Sergey Lavrov. Poiché si tratta pur sempre di un precedente, nulla potrebbe vietare che nel caso di una visita di Netanyahu in Europa non succeda la stessa cosa: nessuno tra gli esponenti europei ne ha ovviamente fatto parola, ma è sottinteso che qualora dovesse succedere così farebbero.
Naturalmente, resterebbe da vedere se l'incriminazione emanata dalla CPI potrebbe davvero durare nel tempo: la sua fama di tribunale a carattere prevalentemente occidentale, controllato dall'esterno dagli Stati Uniti che per primi lo vollero salvo poi rifiutare per ovvie ragioni di parteciparvi, è emersa negli ultimi tempi in una maniera tanto spudorata che nessuno si sorprenderebbe se i suoi giudici, sottoposti a plurime pressioni, dovessero ritirare il mandato d'arresto per Netanyahu. Non a caso, dopo l'annuncio fatto ieri sera da Netanyahu di un ricorso israeliano contro i mandati della CPI, quest'ultima ha prontamente colto la palla al balzo dichiarandosi disponibile a ritirarli in cambio di un'inchiesta seria da parte del governo israeliano. La proposta, si può facilmente immaginare, piacerebbe molto ad Israele e ai suoi alleati, anche perché per “inchiesta seria” e “indagine approfondita” si potrebbero facilmente far passare anche i loro esatti contrari, magari a suon di prove e testimonianze fabbricate come già s'è avuto modo di vedere sinora anche per quanto ha riguardato molta narrativa mediatica successiva al 7 ottobre, a tacer di tutto quel che già in precedenza vi fu. Dopotutto, chi dovrebbe garantire la serietà e la profondità di certe indagini, con quali lungaggini vi s'arriverebbe e con quale certezza che anche degli eventuali ma certo a quel punto obbligatori osservatori internazionale siano davvero pienamente affidabili? E ancora, con quali sanzioni per i riconosciuti colpevoli e con quale certezza della pena? Resta ancora tutto da tracciare, e d'altronde al momento è ancora soltanto un'ipotesi.
Nel frattempo, giunge la notizia del “cessate il fuoco”, su cui analogamente gli ottimismi non possono in automatico fiorire: durata ed efficacia sono al momento ancora tutte da dimostrare, visto che è appena iniziato e che non sono comunque venute meno le scaramucce nei dintorni, ad alimentare possibili e nuove tensioni anche nelle aree in cui dovrebbe valere. Dopotutto, ai principali contendenti conviene davvero che si fermi il conflitto? Non serve molto intuito per comprendere che i negoziati avviati dalla tregua fornirebbero dei risultati che, per diversi motivi, nessuna delle parti riterrebbe soddisfacenti. Certo, tutti i contendenti, e dunque non soltanto Israele ed Hezbollah, dal protrarsi di questo conflitto hanno riportato dei gravi danni, spesso non facilmente riassorbibili in tempi brevi; ma il costo maggioritario è soprattutto a carico dei civili, in particolare della fazione più debole, quella araba, di cui indubbiamente Israele e i suoi alleati poco si curano, circondati e spesso anche ignorati da una comunità internazionale quantomai impotente. Quanto invece alle parti militari, nonostante i gravi danni che reciprocamente si sono inferte, i loro piani per il futuro vedono il perseguimento d'obiettivi ed interessi contrapposti che ben difficilmente al momento possono coincidere con le più immediate istanze dei civili.
La situazione interna ed esterna per Israele, soprattutto, è a dir poco controversa: col raggiungimento della pace Netanyahu rischierebbe ad oggi la caduta assai più che col proseguimento della guerra, ovvero quest'ultima gli permetterebbe quantomeno di rinviarla il più in là possibile. Con la guerra, tuttavia, sarebbe il “sistema paese” israeliano a rischiare a sua volta un'implosione, o ad avvicinarvisi troppo pericolosamente, col rischio automatico che anche l'intero Medio Oriente ne venga travolto in una sorta di suicidio militare e politico della leadership israeliana che inevitabilmente andrebbe a coinvolgere pure i suoi più stretti alleati a cominciare dagli Stati Uniti. Le possibilità che potrebbero scaturire da simili scenari sono al momento tanto imprevedibili, che poter prevedere i precisi passaggi di una simile deflagrazione ben più che regionale significherebbe voler sconfinare direttamente nell'ucronia; ma certo è che nessuno, né a livello regionale né mondiale, resterebbe tanto con le mani in mano, dinanzi ad un collasso geopolitico di tali proporzioni, come un buco nero e la sua esplosione al tempo stesso.
In ogni caso, di là da tali fosche possibilità, lo scenario ad ora più probabile è che le varie parti approfittino del “cessate il fuoco” soprattutto per recuperare e riorganizzare le proprie forze in vista di nuovi e duri confronti sul campo, anche perché questa è la finalità prima che gli hanno attribuito e non soltanto per mere ragioni di “marketing” politico e militare. In tal senso, si tratterebbe del ripetersi di un copione purtroppo già visto in innumerevoli altre occasioni; ed il fatto, da ultimo, che il momentaneo fermo delle armi poggi pure su condizioni di grande e percepibile fragilità, non dovrebbe del pari indurre a tanto facili od immediati ottimismi.