Gli ultimi avvenimenti dai fronti ucraino e mediorientale potrebbero indicare ai paesi occidentali numerose e buone opportunità per quella de-escalation di cui sempre più hanno bisogno, per diverse ragioni, tanto loro quanto le regioni coinvolte; ma per ottenerla servirebbero alle classi dirigenti occidentali anche quel coraggio e quella lungimiranza che finora hanno abbondantemente dato segno di non possedere a sufficienza.
Il vincente debutto sul campo di un missile russo non ancora conosciuto alla NATO, un IRBM ipersonico a testata multipla, ha per esempio messo rapidamente a tacere tutto il sensazionalismo in precedenza riscosso dal via libera all'Ucraina all'uso degli ATACMS americani su obiettivi russi, fornendo un'ulteriore e buona ragione per tornare piuttosto a rivalutare il dialogo. Persino il Presidente ucraino, Zelensky, ha introdotto una simile possibilità, a partire dallo status della Crimea, una cui riconquista sarebbe a questo punto un sacrificio troppo ingente per il paese: soltanto fino a poche ore prima sarebbe sembrata, per usare una colorita espressione della lingua italiana, “una bestemmia in chiesa”. Poco dopo, pur senza far riferimento al Presidente ucraino, che Mosca non riconosce in quanto ormai in carica oltre l'esaurimento del suo mandato e con elezioni lontane dal tenersi, il portavoce del Cremlino Peskov ha comunque ricordato la disponibilità della Russia a discutere di pace con chiunque manifesti “buona volontà”.
Quello di Peskov appare un riferimento, certo vago ma comunque intuibile, ai paesi occidentali che per primi sono stati responsabili politici e materiali di questo conflitto, ed in particolare gli Stati Uniti che con la prossima Amministrazione repubblicana si prepareranno ad esser però un po' più disponibili al dialogo. Ma è un riferimento anche ad altri grandi paesi mediatori come la Cina e la Turchia che fin dal principio tanto si sono prodigati con trattative e proposte di pace sempre sabotate o respinte da Washington e dalla NATO: a questi paesi nessuno dei responsabili del conflitto potrà ora tanto facilmente dire di no. Il ricordo dei tanti sabotaggi e rifiuti, dal ritiro nei negoziati in Turchia alle bozze d'accordo di pace avanzate dalla Cina e stracciate per banalità di forma, certamente pesa tuttora: non a caso anche al recente vertice APEC il Presidente cinese Xi Jinping, incontrando l'omologo americano Biden ormai a fine mandato, ha voluto ricordargli che le posizioni di Pechino sul conflitto e sulla necessità chiuderlo con soluzioni politiche sono sempre state quelle giuste, tanto da non cambiare mai.
Del resto, tornando a guardare agli ATACMS americani e agli omologhi armamenti europei inviati all'Ucraina, quanti finora ne sono già stati lanciati? E quanti altri ancora sono stati addirittura “bruciati” al suolo, ancor prima del loro lancio, dagli interventi russi dal cielo? Ovvero, quanti in definitiva ne restano davvero da tirare? In questo senso il via libera dato dal Presidente Biden, che tanto clamore ha suscitato solo qualche giorno fa, sembra soprattutto un gesto politico finalizzato a complicare i rapporti con Mosca al suo successore alla Casa Bianca e al contempo un invito a Kiev ad accelerare lo "smaltimento" degli ultimi ATACMS ancora a disposizione: tanto, nonostante la loro indubbia pericolosità in caso di bersaglio, nel 90% dei casi vengono comunque intercettati per tempo dalle forze russe.
Non a caso il consiglio rivolto a Kiev dagli alleati occidentali, a partire dal Segretario alla Difesa Austin, alla fine è stato soprattutto quello a mettere in piazza nuovi soldati, altra “carne da cannone” da sacrificare in aggiunta a tutta quella che è già stata “rispedita al Creatore”; e d'altronde era già stato detto, che l'Occidente sarebbe stato disposto a combattere la guerra alla Russia "fino all'ultimo ucraino". Ma nulla vieta che tutto possa finire prima, e in tempi ben più brevi, semplicemente scaricando ovvero tradendo quell'Ucraina che fino a poco prima in Occidente tanto si dichiarava di voler difendere ad ogni costo: semplicemente tirandosi fuori dal conflitto, ma pur sempre con l'immagine pulita di chi c'ha provato e creduto fino in fondo. Il mondo politico e mediatico europeo, a tacer poi di quello americano, è già all'opera in questo senso con una gran fanfara che cercherà di contrabbandare come meglio può una sconfitta concordata per una grande vittoria.
Anche il mandato d'arresto a carico di Netanyahu e Gallant emesso nel frattempo dalla CPI, almeno in teoria, potrebbe fornire ai paesi occidentali qualche buona scusa per distanziarsi più cautamente da Israele, o quantomeno per simularlo salvando un po' le apparenze. I governi europei hanno già dichiarato, più o meno a denti stretti, che consegnerebbero Netanyahu e Gallant alla giustizia internazionale se mettessero piede sul loro suolo, ma tra il dire e il fare alla fine c'è sempre il mare; mentre gli Stati Uniti per entrambi sembrerebbero oggi più che mai un approdo ancor più sicuro. Ma in fin dei conti, davanti ad una situazione che in Medio Oriente vede Israele sempre più in difficoltà con la sua crescente escalation dal Libano alla Palestina, qualcuno che prima o poi si presenti come un comodo rifugio per la sua attuale e sempre più discussa leadership potrebbe pure far comodo.
Gli Stati Uniti nel mentre continuerebbero a sostenere Israele, con o senza Netanyahu al governo, cercando al contempo di ribadire anche il loro ruolo di futuri partner nelle trattative con gli altri grandi e medi attori sul campo; anche perché per Washington, oltre ad Israele, si tratterebbe di preservare pure le sue residue ma pur sempre importanti quote d'interessi ed influenza nella regione. A maggior ragione adesso, nei giorni in cui oltre al mandato d'arresto emesso dalla CPI ad assestare un duro colpo politico al governo israeliano giunge un'ulteriore “brutta” notizia per gli ambienti politici più oltranzisti trasversalmente disposti tra Stati Uniti ed Israele, come il rinnovo dell'Accordo di Pechino tra Arabia Saudita ed Iran.
Lo scorso martedì, al secondo incontro del Comitato Trilaterale Congiunto Cina-Arabia Saudita-Iran, Ryad e Teheran hanno infatti rinnovato l'Accordo con cui due anni fa chiusero quella loro storica faida che, dividendole, divideva anche l'intero Medio Oriente. Quella divisione era a tutto vantaggio dell'Occidente e di Israele, che l'avevano creata ed alimentata così da approfittarne per imporre il loro "ordine" in tutto il Medio Oriente. Non è casuale che qua in Europa, e del resto pure negli Stati Uniti, non se ne parli, preferendo ancora ripetere incessantemente l'epica degli Accordi di Abramo, ormai lettera morta: fa parte di quella stessa gran fanfara di cui parlavamo poc'anzi, riferendoci al modo con cui in Occidente si cercherà d'uscire dalle secche del conflitto ucraino. Prima di poter raccontare la loro comoda versione di parte in tutto l'Occidente, gli Stati Uniti dovranno però impegnarsi in Medio Oriente per vestire i panni dei mediatori e dei tutori di Israele, in modo da salvare il salvabile.
I paesi europei, frattanto, potranno cercare di recuperare un'immagine un po' più equidistante nel conflitto mediorientale, approfittando proprio del mandato d'arresto emanato dalla CPI, pur sbracciandosi in mille distinguo tra il ruolo di Netanyahu e quello dei rapporti con Israele, e via dicendo; e soprattutto si prenderanno addosso la parte principale dei cocci del conflitto ucraino destinato a rapida fine. Quest'ultimo, si sa, è stato un affarone doppio per gli Stati Uniti ed una rimessa doppia per i paesi europei, che in un sol colpo con Mosca hanno perso uno storico partner energetico a basso costo ed un mercato in grande espansione per le loro esportazioni, per sostituirlo con un nuovo fornitore ben più costoso come Washington, più ostico ad accogliere i loro prodotti e determinato a vampirizzarli anche in termini industriali e finanziari, così da ridurli a sua colonia-satellite economica, energetica e commerciale. E quel che è peggio è che in un qualche modo non tarderà ad essere così, prima o poi, anche per quanto riguarda il Medio Oriente: agli Stati Uniti gli onori, ai paesi europei gli oneri.