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Medio Oriente: Israele vuole la testa di Teheran, ma gli equilibri sono cambiati

2024-10-07 18:44

Filippo Bovo

Medio Oriente: Israele vuole la testa di Teheran, ma gli equilibri sono cambiati

Giunti al 7 ottobre, anniversario dei fatti che a Gaza segnarono l'avvio di questo conflitto da allora sempre più allargatosi anche nel resto della re

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Giunti al 7 ottobre, anniversario dei fatti che a Gaza segnarono l'avvio di questo conflitto da allora sempre più allargatosi anche nel resto della regione, fino a coinvolgere la Cisgiordania, il Libano, la Siria e l'Iran, oltre a provocare la discesa in campo degli Houthi nello Yemen, come opinione pubblica tuttora si fatica a ripercorrere quanto davvero avvenne quel giorno, e a capire chi davvero diede fuoco alle polveri. Nel frattempo molte nuove verità sono fiorite, molte vecchie versioni decadute; e probabilmente tra i tanti frutti avvelenati che questo conflitto lascerà quando un indomani sarà terminato vi saranno pure tra comuni cittadini opposti fronti nel nutrire ognuno per proprio conto versioni ufficiali e ricostruzioni controinformative. Non c'è mai stata guerra, crisi o tensione nella storia che non abbia visto questo, sia nel suo perdurare che a maggior ragione dopo, una volta conclusasi.

 

Tuttavia, lasciando momentaneamente da parte il quadro storico e tornando a guardare a questo primo anniversario, ovvero alla sua stretta attualità, abbiamo tutti notato il forte clima d'attesa venutosi a creare nel clima di botta e risposta venutosi militarmente creare tra Israele da una parte e l'Iran con le altre forze legate all'Asse dalla Resistenza dall'altra. Dopo l'azione iraniana contro Israele dello scorso 1 ottobre, coadiuvata anche da altre forze resistenti come Hezbollah e gli Houthi, tutti si sono messi ad aspettare la prevedibile reazione israeliana, più volte promessa e giurata dal premier Netanyahu. Sono passati pochi giorni da quell'ultimo articolo che dedicammo alla vicenda, ma da allora le previsioni non sembrano essere cambiate più di tante: malgrado la dichiarata volontà di Israele di scatenare fuoco e fiamme sull'Iran, a non renderla fattibile concorrono gli immensi cambiamenti che nel frattempo hanno conosciuto gli equilibri politici di tutto il Medio Oriente. Pochi giorni fa, ad esempio, nella capitale qatariota Doha le autorità saudite ed iraniane si sono incontrate per discutere ed affrontare unitamente l'aggressione israeliana al Libano e alla Palestina, e tra le parole che maggiormente hanno risuonato nell'incontro vi sono state quelle scandite dal ministro degli Esteri saudita che al Presidente iraniano ha dichiarato: “L'Arabia Saudita vuole chiudere in modo permanente il capitolo delle nostre differenze”. Già subito dopo l'assassinio del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, il Principe ereditario saudita aveva lanciato un appello a tutti i paesi arabi e musulmani ad un'alleanza contro Israele per il Libano e la Palestina, che andava ad aggiungersi a sue precedenti dichiarazioni in cui escludeva ogni possibilità d'accordi con Israele finché non fosse sorto lo Stato palestinese. 

 

Questi incontri testimoniavano la buona salute del riavvicinamento tra sciiti e sunniti garantito dalla mediazione cinese oltre un anno fa, ed il suo progredire nel tempo rafforzandosi ed aggregandosi sempre di più dinanzi alle nuove sfide incarnate dai vari conflitti in Medio Oriente scoppiati dopo l'7 ottobre 2023. Non si vedeva invece più traccia dei tanto sbandierati Accordi di Abramo, né in Arabia Saudita né negli altri paesi del Consiglio di Cooperazione di Golfo che vi avevano partecipato come il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti, e che più tardivamente rispetto a Riyad se ne sono poi defilati. Per il Bahrain, piccolo arcipelago nel Golfo Persico, con l'immensa base navale della V Flotta USA (in precedenza, quand'era ancora protettorato britannico, v'era ormeggiata invece la Royal Navy), dire di no a Stati Uniti ed Israele appariva in precedenza un passo ancora troppo impegnativo; mentre gli Emirati analogamente faticavano a svincolarsi dalle scelte strategiche della loro “geopolitica parallela e concorrente" a quella saudita, che rispetto al grande confinante li spingeva a mantenere rapporti diplomatici più distesi con gli Stati Uniti, Israele e i paesi europei e a portare avanti una linea piuttosto corsara in Africa Orientale, sostenendo ad esempio con Francia ed Etiopia la ribellione delle RSF (Forze di Supporto Rapido, gli ex Janjaweed del Darfur, regione sudanese al confine col Ciad) in Sudan contro il governo nazionale e il separatismo del Somaliland nel nord della Somalia: entrambe due imprese ormai avviate al fallimento, con le forze armate sudanesi che hanno ormai riconquistato Khartoum e s'avviano a concludere il conflitto civile, mentre in Somalia il sempre più massiccio interventismo turco ed egiziano ha pesantemente riequilibrato i rapporti di forza regionali a sfavore di Addis Abeba e dei suoi sempre meno convinti sponsor emiratini.

 

Un altro frutto dell'incontro dei leader del Golfo a Doha s'è avuto nella loro rinnovata dichiarazione di neutralità nei confronti dell'Iran, che si traduce nel diniego alla concessione dell'uso delle basi USA presenti nel loro territorio per ogni eventuale rappresaglia da parte di Stati Uniti ed Israele contro Teheran: senza quelle, comprensibilmente, nessun intervento d'ampia portata contro la Repubblica Islamica sarebbe facilmente concepibile. Ecco perché l'idea di un bombardamento su larga scala contro obiettivi iraniani, tali da coinvolgere importanti siti militari e petroliferi, nonché strutture governative e addirittura il palazzo presidenziale a Teheran, come ventilato da più parti, appariva assai fantasioso. Certo, non sarebbe stato in ogni caso possibile per le conseguenze che avrebbe avuto, a cominciare dai missili che l'Iran e i suoi alleati in Iraq, Yemen e Libano a quel punto avrebbero scagliato sul resto della regione, coinvolgendo non soltanto Israele ma anche quegli stessi paesi arabi sunniti che avevano espresso a Teheran e all'Occidente la propria neutralità, con la paralisi delle forniture energetiche dal Medio Oriente e l'avvio di fatto di una vera e propria guerra mondiale: molti osservatori l'avevano immediatamente fatto notare, tenendo conto pure del fatto che negli Stati Uniti nel frattempo le elezioni incombevano. Ma, prima ancora d'immaginarsi uno scenario del genere, ciò non era possibile proprio perché a prescindere senza disponibilità delle basi USA nella Penisola Arabica e nel Golfo e senza facili possibilità di poter compensare con lanci navali dal mare, dato pure il rischio di venirvi ugualmente colpiti, gli spazi per una simile escalation semplicemente non potevano esserci.

 

Non a caso nelle ultime due notti, Israele ha bombardato Gaza, Beirut, il Libano meridionale, la Valle della Bekaa e la Siria, venendo a sua volta colpito dalle varie forze resistenti sul campo, ma non ha attaccato l'Iran. Pur avendo giurato un imminente attacco a Teheran, coordinato con gli Stati Uniti, l'unica traccia avutane nelle ultime 72 ore s'è limitata ad un'incursione di quattro F-35 israeliani verso l'Iran, immediatamente rilevata dai sistemi radar russi che hanno allertato Teheran, che già ne aveva avuto sentore mobilitando le proprie difese: tanto che nelle ultime due notti, per prepararsi ad eventuali sorprese ed ultimare i dettagli finali di un'eventuale controreazioni, lo spazio aereo iraniano sul fianco occidentale è stato sempre completamente interdetto al volo. Israele aveva ad ogni modo avvisato dell'attacco l'India, con cui nell'attuale crisi in Medio Oriente mantiene buoni rapporti sebbene Nuova Delhi ne mantenga d'altrettanto buoni pure con l'Iran, e che comprensibilmente non intende mettersi contro; anche perché proprio in quelle stesse ore si stavano tenendo delle esercitazioni navali congiunte irano-indiane, nella base della marina navale militare iraniana di Bandar Abbas, e per giunta gli indiani gestiscono pure il porto iraniano di Chabahar: e nel Golfo Persico tanto è rilevante il primo porto sul piano militare quanto il secondo su quello energetico e commerciale. Nuova Delhi non apprezzerebbe delle azioni israeliane, anche soltanto simboliche, a danno dei propri interessi nel paese; o peggio ancora, un eventuale danneggiamento a del suo naviglio militare, nel quadro d'esercitazioni belliche con un altro alleato come l'Iran, perché nella migliore delle ipotesi s'avrebbe un'enorme crisi diplomatica tra India ed Israele, e nella peggiore un immediato scontro tra forze indiane ed israeliane. 

 

Conseguentemente, nell'impossibilità militare e nell'inopportunità politica di concepire un attacco israelo-statunitense d'ampia portata, con tutti i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Oman) fermi nel sostenere la loro neutralità con Teheran, con le elezioni americane a meno di un mese e il di coinvolgere nel conflitto un paese terzo e mediatore come l'India, agli Stati Uniti altro non resta da fare che alimentare e spalleggiare Israele dall'esterno, in un suo attacco simbolico da poter poi pantografare mediaticamente in Occidente come una grande e sonora lezione tale da annichilire per proporzioni la massiccia e di successo reazione iraniana dello scorso 1 ottobre. Sono già passate due notti e per il momento non s'è ancora visto niente; forse per la notte di questo 7 ottobre, primo anniversario dell'odierno conflitto, Israele potrà nuovamente tentare una sua sortita contenuta nella portata ma da poter poi qui mediaticamente pantografare come mirabolante, o forse la rimanderà ancora più avanti, così da fare di questa data tanto simbolica soltanto un depistaggio. Per certo, tuttavia, si può dire che le sue prove d'attacco non abbiano avuto finora un fortunato esito.

 

 

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