Tra il 4 e il 6 settembre scorsi s'è tenuto a Pechino il IX Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC), che dal suo primo incontro del 2000 ad oggi ha visto una sempre maggior crescita d'importanza sia agli occhi dei numerosi partner africani di Pechino che degli altri attori a livello internazionale. Ne è prova anche l'accresciuta attenzione che la nostra stampa vi dedica rispetto al passato, ben più che implicitamente prendendo atto di trovarsi dinanzi al costituirsi di un importante e nuovo fatto storico. Nella sua storia, secondo il principio del mutuo rispetto e della reciprocità tra le parti, gli incontri del FOCAC si sono sempre tenuti in alternanza tra la capitale cinese e una capitale africana, secondo un ordine che potremmo riassumere così: Pechino nel 2000, Addis Abeba nel 2003, Pechino nel 2006, Sharm el-Sheikh nel 2009, Pechino nel 2012, Johannesburg nel 2015, Pechino nel 2018, Dakar nel 2021, infine oggi Pechino nel 2024.
La prima edizione vide la partecipazione a Pechino di oltre 80 tra ministri e rappresentanti da 44 paesi sui 54 del Continente (a quel tempo ancora 53, poiché il Sud Sudan si sarebbe reso indipendente solo nel 2011). Oltre alle varie figure a rappresentanza degli Stati partecipanti, ve ne erano poi anche altre a nome di 17 organizzazioni tra regionali ed internazionali. Erano già allora numeri imponenti, seppur ancora lontani dal raggiungere i livelli che avremmo visto alcuni anni dopo. Nel 2009, a Sharm el-Sheikh, gli Stati africani che partecipavano al FOCAC e che intendevano approfondire il loro rapporto con la Cina erano già saliti a 49, una progressione rilevante, anche perché accompagnata dal costante aumento dei fondi destinati ai partner africani per una cooperazione sempre più ad ampio spettro comprendente l'energia, l'istruzione, la sanità, i trasporti, le infrastrutture, i commerci, le telecomunicazioni, l'agricoltura, l'industria e via dicendo, così come dal coevo irrobustimento delle nuove istituzioni finanziarie, sociali e bancarie che avrebbero dovuto sostenerla, come il China-Africa Development Fund.
Pochi anni dopo, a Johannesburg, in coincidenza con l'affermarsi del progetto della Belt and Road Initiative (BRI), i paesi africani aderenti erano già saliti a 51, parallelamente all'accresciuta mole d'investimenti ed interscambi tra le parti. L'edizione di Dakar, nel 2021, si svolse nel pieno della pandemia da Covid, in videoconferenza con Pechino, e fu un momento che sottolineò l'importanza di una cooperazione anche su nuovi temi come la connettività, la sicurezza sanitaria o quella informatica. Quell'edizione rimarrà nella storia per la sua singolarità, data l'importanza che vi rivestì la comunicazione via internet in quel momento indispensabile per ogni appuntamento di portata internazionale. Ma non di meno si potrà dire per quello conclusosi pochi giorni fa, finalmente di nuovo in presenza, perché ha dato la possibilità di tracciare le ulteriori rotte per il futuro come l'ecosostenibilità, l'energia e lo sviluppo verdi, la decarbonizzazione. Se a molti il raggiungimento di questi traguardi può sembrare ancora troppo lontano rapportandolo alla realtà africana, allo stesso tempo occorre però riconoscere come esso non sia affatto opzionale od eludibile per nessuna realtà mondiale che miri ad emanciparsi dal sottosviluppo e dalla povertà.
Fu proprio modernizzandosi, e non chiudendosi nel passato, che la stessa Cina a suo tempo poté vincere l'ambiziosa ma anche indispensabile sfida per uscire dal sottosviluppo e dalla povertà. Sebbene Pechino, diversamente da altri, non miri per sua mentalità storica e politica ad imporre il suo modello ai propri interlocutori, basandosi sul principio che le relazioni tra Stati debbano fondarsi sul rispetto e sulla comprensione reciproci, sono comunque quest'ultimi ad interessarsene in numero crescente, trovandovi più di un buon elemento su cui basarsi per avviare con sicurezza il proprio sviluppo e raggiungere un superiore benessere. Uno Stato sviluppato e moderno, autosufficiente in termini economici ed alimentari, lo sarà più facilmente anche in termini politici; e ciò andrà anche ad indubbio beneficio della sua sovranità. Non dobbiamo mai dimenticarci, quando guardiamo alle relazioni tra tutti questi Stati, che stiamo parlando di nazioni che nel loro vissuto storico hanno riportato le ferite del colonialismo e del neocolonialismo occidentali, con cicatrici tuttora profonde che non si limitano purtroppo alla loro sola memoria: è stato così per la Cina come a maggior ragione per tutti i 54 paesi del Continente Africano.
Solo il piccolo Eswatini, ex Swaziland, continua oggi a non intrattenere un dialogo con Pechino, unico Stato africano insieme ad altri 11 tra gli Stati presenti all'ONU, prevalentemente piccole realtà delle Antille e dell'Oceania che non a caso tuttora scontano la difficoltà ad uscire dalle secche di certi condizionamenti ed ingerenze neocoloniali (come Haiti, Palau, il Guatemala o Tuvalu, e via dicendo): a riprova di quanto dure ancora siano certe catene e di quanto allo stesso tempo doveroso sia impegnarsi per rimuoverle, affiché ognuno al mondo possa davvero operare in piene condizioni di reale sovranità le proprie scelte.
Sebbene molti in Occidente giudichino ancora con una certa sufficienza o scetticismo la crescente iterazione tra Cina e mondo africano, i suoi numeri appaiono già oggi di profonda importanza. Basterebbe solo guardarsi, anche frettolosamente, le varie tabelle infografiche del FOCAC 2024 per rendersene conto: numeri e percentuali ingenti, destinati verosimilmente ancor più a lievitare considerando i 50 miliardi di dollari di nuovi investimenti che proprio a conclusione del vertice sono stati concordati con le controparti. I vecchi dati relativi al periodo 2000-2022 ci consegnavano già più di 10mila chilometri di ferrovie, di 100mila chilometri d'autostrade, e di 200mila chilometri di fibra ottica, nonché più 200 scuole, di 130 ospedali e 50 stadi.