Quello che lo scorso 22 marzo avrebbe dovuto essere un indimenticabile momento di gioia, s'è trasformato per molti moscoviti ed altri cittadini russi giunti da ogni parte del paese in un inferno di sangue e fuoco che ne ha reclamato le vite. Ben 139 le vittime e 180 i feriti dell'attentato al Crocus di Mosca, causato da attentatori poi datisi alla fuga. Quest'ultimi, presto catturati mentre si dirigevano verso la frontiera, sono stati sottoposti a pesanti interrogatori e dalle loro prime confessioni è emersa, sia pur in modo confuso, la pista dell'attentato terroristico di matrice islamo-fondamentalista. Da qui le accuse di Mosca rivolte a Kiev d'essersene strumentalmente avvalsa col favore dei suoi più influenti alleati, Londra e Washington, in un gioco di morte la cui dinamica trova l'incredulità e lo sconcerto di molti occidentali.
Se in effetti l'intreccio tra terrorismo islamo-fondamentalista e guerra in Ucraina trova la scarsa comprensione del pubblico occidentale, non è tuttavia un mistero che l'Occidente oggi impegnato nel sostegno attivo a Kiev abbia avuto e continui tuttora ad avere conosciute vicinanze col fenomeno dei vari gruppi terroristi legati all'Islam politico e alle sue letture più estremiste di matrice wahabita e salafita. La Russia, prima ancora l'Unione Sovietica, ebbe modo di saggiare queste vicinanze sul campo, scontrandosi coi Mujahedin che la sinergia tra Washington, Riyad ed Islamabad aveva permesso di mettere in piedi in Afghanistan contro il regime filosovietico che vi era sorto nel 1978 e su cui richiesta erano giunti in soccorso l'anno successivo. Sempre da quella sinergia tra USA, Arabia Saudita e Pakistan era poi rapidamente sorta, negli Anni ‘80, quella che sarebbe stata la sigla madre di tutte le organizzazioni islamo-fondamentaliste moderne, al-Qaeda. I sovietici si sarebbero ritirati dall’Afghanistan nel 1987 e soltanto pochi anni dopo, nel 1992, l'Afghanistan sarebbe caduto nelle mani dei Mujihaedin che vi avevano rapidamente guadagnato terreno. Dopo aver vanamente tentato la fuga, l'ultimo leader socialista Najibullah si rifugò presso gli uffici ONU della capitale afghana, dove sarebbe rimasto fino al 1996 quando sarebbe stato catturato ed ucciso dai Talebani, a loro volta impadronitisi del paese dopo aver cacciato a nord i Mujahedin mai riusciti a riappacificarsi tra di loro.
Nel frattempo molti miliziani che si erano fatti esperienza sull'impegnativo campo afghano avevano cominciato a far ritorno nei loro paesi d'origine, da cui erano partiti anni prima proprio per combattere gli “infedeli” sovietici. Vari paesi del Medio Oriente, dall'Asia Centrale al Maghreb, conobbero non a caso a partire dagli Anni ‘90 un preoccupante crescendo d’insicurezza ed instabilità provocate dal terrorismo di matrice islamo-fondamentalista, sullo sfondo di una progressiva radicalizzazione che spesso andava ad inquinare società in precedenza molto più laiche ed aperte. La voragine di caos apertasi con la caduta dell'URSS diede a molti di questi reduci dalla guerra afghana, desiderosi di ripetere altrove o persino in patria il successo della loro jihad, infinite nuove possibilità. Dal Tagikistan al Caucaso, dove si registrarono le due guerre in Cecenia, Inguscezia e Daghestan del 1993 e 1999, i russi e i vari popoli dell'era post-sovietica ebbero così nuovamente modo d'affrontare un doloroso confronto col terrorismo islamo-fondamentalista. Non diversamente avvenne, come già detto, anche in altre parti del mondo, non soltanto in Medio Oriente ma pure nei Balcani, dove la guerra civile che a più riprese portò allo scioglimento della Jugoslavia vide proprio una forte incidenza dell'estremismo islamista, dalla Bosnia al Kosovo. Così nello Xinjiang, regione autonoma cinese centroasiatica che da quel momento cominciò a subire la spinta di nuovi movimenti separatisti e fondamentalisti desiderosi di dar vita ad un loro Califfato, il Grande Turkestan, che avrebbe dovuto espandersi a danno anche delle altre repubbliche limitrofe.
In questo contesto di preoccupante destabilizzazione con cui sembrava concludersi il vecchio secolo, l'Occidente pareva distratto da altre cose, ebbro del trionfo sul nemico sovietico ed illuso dall'abbaglio di un eterno predominio sul mondo intero. Gli attentati alle Torri Gemelle del febbraio 1993 gli ricordarono che al-Qaeda non era diventata un marginale ricordo del passato, sparpagliatasi dopo la guerra afghana tra Pakistan e Sudan, ma un fatto ancora presente e per giunta ormai fuori dal controllo. I successivi attentati ad obiettivi americani, come quelli alle ambasciate in Kenya e Tanzania del 1998, testimoniarono ulteriormente la crescente temibilità di al-Qaeda, e quello che nuovamente colpì le Torri Gemelle nel settembre 2001 con gli attacchi aerei che ne provocarono la distruzione a maggior ragione segnarono uno spartiacque. L'allora Presidente George W. Bush, annunciando la dottrina della “guerra al terrore”, preparò il terreno alle invasioni dell'Afghanistan e dell'Iraq, sullo sfondo di un “conflitto di civiltà” che andava a contrapporre Islam ed Occidente. Dietro quella strategia si nascondeva tuttavia l'intenzione dell'Occidente guidato da Washington di guadagnarsi “un nuovo secolo americano", quasi un voler cinicamente approfittare di una crisi per trasformarla in una grande opportunità. Bisognava, “esportando la democrazia”, spodestare vecchie leadership mediorientali poco affidabili o fuori controllo ed accaparrarsi di nuove risorse energetiche, per prevenire le nuove potenze emergenti con le quali già s'intravedeva una futura e crescente competizione.
Gli esiti non proprio fruttuosi di quella strategia portarono ad un suo ripensamento, di cui si fece interprete la nuova amministrazione Obama che, apparentemente condannandola ed abbandonandola, in realtà provvide a riforgiarla dandole vesti nuove, dall'apparenza almeno in principio più rassicurante e persino seducente. Il discorso al Cairo del 2009 fatto dal nuovo Presidente americano preannunciava quelle che sarebbero state le prossime Primavere Arabe, su cui Washington era già al lavoro. Le rivoluzioni colorate che a partire dal 2011 iniziarono ad animare i vari paesi mediorientali erano infatti un aggiornamento della vecchia strategia: dall'aggressione esterna si passava a quella effettuata dall'interno, avvalendosi dell'intelligence, dei vecchi eredi dell'islamo-fondamentalismo e dei tradizionali alleati delle petromonarchie del Golfo che ne erano storici finanziatori. Gli obiettivi di fondo restavano sempre gli stessi: “esportare la democrazia”, rimuovere i vecchi governi laici o non fedeli del Medio Oriente e sostituirli con altri, guidati da esponenti dell'Islam politico meno riottosi verso l'apertura dei loro paesi ad una globalizzazione su misura dell'Occidente.
Fu proprio in quel periodo che l'ISIS ebbe i suoi natali, da una costola di al-Qaeda da cui si staccò entrandovi successivamente in conflitto fino ad acquisire il predominio sui vari teatri operativi. Dal nord dell'Iraq, dove iniziò a muovere le sue prime mosse, l'ISIS s'espanse in Siria, nel frattempo precipitata nel caos a seguito delle rivolte collegate alle Primavere Arabe del 2011/2012, e nel giro di due anni a seguito di una rapida crescita territoriale giunse infine a proclamare il proprio Califfato con capitale a Mosul. L'immagine vincente dell'ISIS agli occhi di molte potenziali reclute ed aspiranti miliziani permise sempre maggiori affiliazioni da parte di vecchie sigle precedentemente autonome o legate ad al-Qaeda, come al-Shabaab in Somalia, o alla nascita di nuove, come Boko Haram nel nord della Nigeria. In Iraq le truppe americane che dal 2014 avevano iniziato un parziale ritiro dal paese lasciarono intere basi militari coi relativi arsenali agli uomini del Califfato nero, e ciò contribuì ad ingraziarseli. Il fatto che combattessero contro due governi sgraditi a Washington, come quello a maggioranza sciita in Iraq e quello baathista in Siria, era un buon motivo agli occhi dell'intelligence americana per lasciarli lavorare, con la convinzione che in modo indiretto avrebbero pur sempre assecondato gli interessi americani nella regione.
Approfittando non soltanto della destabilizzazione in atto in Siria ma anche in Libia, precipitata nel caos dopo la fine di Gheddafi causata dall'intervento occidentale e dalla rivoluzione colorata a Bengasi che in precedenza proprio l'Occidente aveva provveduto a coltivare, l'ISIS non tardò a diffondervisi, mentre del pari iniziava a far parlare di sé anche in altre aree del mondo, dall'Africa Subsahariana all'Asia Centrale fino persino al Sud Est Asiatico. Anche quando i paesi occidentali, Francia e Stati Uniti in testa, decisero d'intervenire contro l'autoproclamato Califfato, nel 2014/2015, in realtà coi loro bombardamenti ne colpivano soprattutto i nemici, ovvero l'esercito siriano e i suoi alleati iraniani e libanesi di Hezbollah; all'ISIS, spesso e volentieri, paracadutavano pure nuovi ed ulteriori aiuti militari. Mentre Israele, curiosamente, mai si scontrava con l'ISIS, come prima mai s'era scontrata con le altre forze ribelli legate ad al-Qaeda e al-Nusra, preferendo ugualmente colpire gli obiettivi militari siriani e gli alleati iraniani e libanesi di Damasco: stranamente il Califfato, che pure avrebbe dovuto apparirgli più temibile, non sembrava turbare eccessivamente i suoi pensieri. Ma nelle strategie occidentali ciò trovava una spiegazione nel fatto che, come al-Qaeda in Afghanistan era stata coltivata in funzione anti-sovietica, così in Siria e nel Medio Oriente l'ISIS veniva oggi coltivato in funzione anti-iraniana, con un occhio rivolto pure alla sempre più “preoccupante” concorrenza russa, cinese e di altri paesi emergenti.
Contro l'ISIS i russi si trovarono a combattere allorché intervennero in sostegno dell'alleato siriano nel 2015, mentre con le sue diramazioni a partire dall'ISIS-Khorasan ebbero modo di entrare in conflitto in varie occasioni che ne riguardavano i principali teatri operativi, dal Caucaso all'Asia Centrale. La CSTO (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva), che riunisce Russia, Armenia, Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan ed Uzbekistan, e la SCO (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai) hanno avuto modo a più riprese di confrontarsi col pericolo rappresentato dalle varie filiali dell'ISIS-K particolarmente attiva in vari contesti dell'Asia Centrale. Non è casuale che dopo l'evacuazione dell'Afghanistan da parte della coalizione occidentale NATO-ISAF nell'agosto 2021, col ritorno dei Talebani a Kabul e la rinascita del loro Emirato Islamico, le potenze occidentali che precedentemente occupavano il paese tornino ora a destabilizzarlo facendo perno stavolta sull'ISIS-K, cresciuto per l'occasione, proprio come in epoca sovietica facevano sostenendo i Mujahedin ed al-Qaeda. Si ripete così un vecchio copione: dopo la fine della guerra contro i sovietici in Afghanistan, molti reduci islamo-fondamentalisti erano tornati in patria portando anche nei paesi occidentali una nuova stagione di terrorismo a cui la società occidentale non era preparata. Ciò avrebbe dovuto costituire un severo monito per non farlo mai più in futuro. Tuttavia l'esperienza delle Primavere Arabe, coi suoi strascichi successivi, ha nuovamente introdotto molti paesi occidentali ad una nuova stagione di terrorismo islamo-fondamentalista: molti che combatterono in Libia, in Siria o in Iraq, o nel Caucaso e nei Balcani, o in Asia Centrale o nell'Africa Subsahariana, provenivano da paesi occidentali e spesso vi fecero ritorno, per organizzare nuove cellule estremiste e reclutare altri nuovi miliziani, principalmente nel vasto serbatoio delle comunità di stranieri di prima e seconda generazione spesso colpite da forti fenomeni di radicalizzazione confessionale anche nelle nostre periferie.
Nel caso dell'ISIS-K attivo nel Caucaso molti che avevano combattuto nelle due guerre in Cecenia, insieme a numerosi ceceni che non avevano accettato la riconciliazione con Mosca sancita sotto Kadyrov padre, scelsero poi di spostarsi nei vari campi di battaglia offerti dalle Primavere Arabe, in particolare quello siriano-iracheno, per poi spostarsi soprattutto in Ucraina dove dopo il 2014 sono stati impiegati in battaglioni di volontari attivi contro le Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk. Fatte tali considerazioni e alla luce di tutta questa lunga disamina le accuse oggi formulate da Mosca a Kiev e ai suoi principali alleati Londra e Washington, d'essersi strumentalmente avvalsa dei combattenti dell'ISIS-K per sferrare una nuova offensiva terroristica sul suo territorio, non possono dunque apparirci proprio infondate.