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Conflitto israelo-palestinese: Yemen e Corno d'Africa, i due volti del "fronte meridionale"

2024-01-08 16:00

Filippo Bovo

Conflitto israelo-palestinese: Yemen e Corno d'Africa, i due volti del "fronte meridionale"

Nei precedenti articoli abbiamo più volte trattato del “fronte meridionale”, costituito dallo Yemen e dall'entrata in campo degli Houthi a fianco di H

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Nei precedenti articoli abbiamo più volte trattato del “fronte meridionale”, costituito dallo Yemen e dall'entrata in campo degli Houthi a fianco di Hamas e dei palestinesi contro Israele e i suoi alleati occidentali. Con l'apertura di questo fronte la catena dei rifornimenti ad Israele è stata severamente intaccata, e così anche quella ai mercati europei e statunitense; quest'ultimi, conseguentemente, si ritrovano a pagare un prezzo salato per il loro sostegno all'alleata Tel Aviv, sia per i propri fabbisogni che per l'incrementato appoggio economico e logistico che a quel punto devono garantirle, onde compensare alla minor praticabilità della rotta tramite lo Stretto di Bab el-Mandeb. Il passaggio alternativo, costeggiando l'Africa e doppiando il Capo di Buona Speranza, costa di più all'Occidente in termini di tempo e denaro, mentre puntare sulle vie di terra suona a Washington e ai suoi alleati come un grande regalo alla BRI, la Belt and Road Initiative, promossa con successo dalla Cina.

 

Tuttavia, in altri articoli pubblicati nel mese di novembre, ricordavamo anche la non meno seria partita in Africa Orientale, con la guerra civile in Sudan che vede un'abbondante presenza di vari attori sia regionali che extraregionali, dall'Etiopia agli Emirati Arabi Uniti, dall'Egitto all'Arabia Saudita, oltre ovviamente ad una sotterranea ma neppur troppo occulta azione occidentale ed israeliana. Messe in ombra dalla guerra a Gaza e dalle azioni degli Houthi, le conflittualità in Sudan ed Etiopia ed ora anche in Somalia non sembrano coinvolgere l'attenzione dei più; eppure rappresentano proprio la seconda faccia di quel “fronte meridionale” apertosi con l'entrata in campo degli Houthi. Ad un conflitto nello Yemen, nella Penisola Arabica, ne corrisponde uno tra Etiopia, Sudan e Somalia, nel Corno d'Africa. Non conflitti a sé stanti, dunque, ma tutti parte di un più ampio quadro in cui molti degli equilibri e delle poste in gioco sono di comune pertinenza ed interesse, in una vasta area che comprende tanto il Medio Oriente quanto l'Africa Subsahariana. Più questi conflitti vanno avanti, più ciò che li lega emerge rendendosi maggiormente visibile.

 

Ma procediamo con ordine: gli ultimi articoli, dedicati agli Houthi, dopotutto datavano a dicembre e da allora sono indubbiamente successe molte cose. C'eravamo lasciati con la novità dell'Operazione Prosperity Guardian, lanciata dagli Stati Uniti con la partecipazione di vari paesi, data in quel momento per garantita sebbene fosse in realtà più che altro auspicata; ed abbiamo infatti poi visto come gran parte di loro, arabi ed europei, abbiano “gentilmente” declinato l'invito. Dopo il rifiuto di Egitto, Sudan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, solo il piccolo emirato insulare del Bahrain risulta essere l'unico paese arabo e regionale a partecipare all'OPG; una scelta pressoché obbligata, visto il suo ormai pluridecennale ruolo di base navale strategica della Royal Navy prima e della Quinta Flotta della US Navy poi. Senza poi dimenticare l'intricata partita interna tra la popolazione a maggioranza sciita e la Casa regnante sunnita degli Al Khalifa, che impone al governo locale una maggior dipendenza dal supporto statunitense per non ricorrere a quello saudita come già avvenne con la fallita rivoluzione del 1981 e la repressa primavera araba del 2011: il prezzo da pagare per non cadere nella satellizzazione saudita o in quella iraniana almeno per il momento è, secondo gli Al Khalifa, quello di un abbraccio con gli anglo-americani, che del resto accettano ben volentieri.

 

Il motivo del rifiuto saudita, emiratino, egiziano e sudanese è invece noto: nessuno di questi paesi è intenzionato a dar spago agli Stati Uniti, avvertiti come superpotenza sempre più declinante e pericolosa per gli equilibri locali, in un'alleanza improvvisata che avrebbe dovuto renderli dei funzionali strumenti per la tutela degli interessi di Washington e Tel Aviv nella regione. Non serviva dopotutto un'arca di scienza per comprendere che la OPG fosse, soprattutto ai loro occhi, una missione di “pirateria internazionale” con cui gli Stati Uniti avrebbero finito col "metterli di mezzo", aggrappandosi a qualche “false flag” da attribuire agli Houthi per elevare i toni dello scontro ed allargare il conflitto. Come già abbiamo descritto negli articoli passati, ciò avrebbe provocato anche una nuova frattura tra sciiti e sunniti, riaprendo non soltanto un conflitto come quello che ha opposto l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti allo Yemen, oltre che all'interno di quest'ultimo, ma pure creando le possibilità per un suo eventuale allargamento ad altri attori limitrofi, non soltanto l'Iran. Nessuno, in tutta la regione, ha voglia di disseppellire l'ascia di guerra tra sciiti e sunniti accuratamente seppellita grazie alla mediazione cinese; come abbiamo più volte ricordato, i vari Accordi di Abramo sembrano ormai reperti di un'età antidiluviana.

 

Per lo stesso motivo, men che meno l'OPG poteva trovare accoglienza da parte di un paese da trent'anni messo al bando dagli Stati Uniti come l'Eritrea, con l'improvviso riconoscimento di Washington ai confini sanciti dall'EEBD nel 2002, senza ovviamente ritrattare sulla loro ormai storica politica di sanzioni e tentativi di “regime change”. Pragmaticamente gli Stati Uniti vedevano con utilità la partecipazione della marina militare eritrea all'OPG, visto che Asmara è tra le prime dieci potenze militari del Continente Africano; ma questo avrebbe altrettanto pragmaticamente comportato anche il mettere Asmara contro due suoi storici alleati come Pechino e Riyad. Non a caso, visto lo scontato rifiuto ottenuto, solo pochi giorni dopo gli Stati Uniti tornavano ad accusare l'Eritrea come da loro solito, attribuendole inesistenti ingerenze nel conflitto in Sudan, mentre gli ispettori dell'UE di concerto con gli alleati d'oltreoceano si mettevano nuovamente a puntare l'indice contro le forze armate eritree per i già smentiti crimini di guerra nello stato etiopico del Tigray. 

 

Non molto dopo è arrivato anche il rifiuto di Francia, Italia e Spagna. In questo caso le ragioni erano ovviamente diverse rispetto a quelle dei paesi arabi, ma comunque facilmente facilmente comprensibili: come abbiamo notato in settimane di scontri all'ONU, sia pur in diverso modo Parigi, Roma e Madrid hanno cercato di differenziarsi dalla linea più marcatamente filo-israeliana portata avanti da Washington e Londra. Francia e Spagna hanno espresso ufficialmente il sostegno alla “soluzione dei due Stati”, col fine di migliorare anche a spese dei loro più oltranzisti alleati inglese e statunitense la propria immagine in Medio Oriente come in Africa: Madrid ha espresso quel sostegno pure fuori dall'ONU, a costo d'incontrare la pronta ostilità del governo israeliano, mentre per Parigi riprendere quota presso l'opinione pubblica araba ed africana si pone oggi più che mai come un serio imperativo dopo l'ondata rivoluzionaria che ha rimodellato a suo danno l'ormai ex Françafrique. L'Italia a sua volta s'associa, come da influenza di Parigi sugli affari di Roma sancita dal Trattato del Quirinale, e al tempo stesso per poter meglio perorare tanto in Medio Oriente quanto nel Continente Africano il fino ad oggi non molto fortunato Piano Mattei. 

 

Conseguentemente, ritrovandosi “a mani nude”, gli Stati Uniti devono provvedere ad intervenire in loco da soli o quasi, senza poter godere del vantaggio di un'alleanza ampia su cui scaricare i costi e i rischi di un'operazione tesa a perturbare la regione con un conflitto ad alta intensità ma anche non troppo prolungato nel tempo. Indebolendo o debellando i rivali regionali, avrebbero potuto dare un chiaro segnale ai vecchi alleati nel frattempo allontanatisi un po' troppo dalla loro sfera d'influenza, inducendoli ad un riavvicinamento; ma paradossalmente è stato proprio a questo punto che il loro disegno, che sembrava tanto perfetto, è entrato in crisi. Gli avversari non cedono alle provocazioni, mentre gli alleati o potenziali tali non cadono nella trappola di un'alleanza troppo compromettente; ed entrambi, non facendo il loro gioco, preservano e garantiscono solidità alla ricucitura tra sciiti e sunniti; mentre Israele, più il conflitto prosegue, più si ritrova a bruciare al proprio interno e a rischiare la sconfitta o quantomeno un risultato strategicamente infruttuoso. Nel mentre, sul “fronte settentrionale”, Hezbollah continua a premere su Israele dal sud del Libano, con un forte potere di dissuasione e sapendo che Tel Aviv non può permettersi, men che meno secondo una prospettiva di lungo termine, un conflitto su due fronti; ed altrettanto fa l'Iran, più estesamente, guardando agli Stati Uniti, sul Golfo Persico e nel resto della regione, in Iraq e Siria, fino ai confini libanesi. A metà di questo “ventaglio geografico” che spazia dalla Palestina al Libano ruotando sul Mar Rosso, il Golfo di Aden, il Mar Arabico, il Golfo dell'Oman e il Golfo Persico, gli Houthi yemeniti che, agendo in modo settoriale, colpiscono le navi statunitensi ed israeliane compromettendone il transito via Suez. 

 

Ma è proprio qui che la nostra attenzione deve allargarsi anche all'altro versante, quello del Corno d'Africa: ed è infatti quanto faremo nel prossimo articolo.

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